
Un post pubblicato su X dalla giornalista Azzurra Barbuto ha acceso un acceso dibattito sul ruolo dei media e sul modo in cui l’opinione pubblica elabora il dolore e lo trasforma in simbolo. Al centro del confronto c’è Gino Cecchettin, padre di Giulia, la giovane uccisa nel novembre 2023, diventato negli ultimi mesi una delle voci più ascoltate sul tema della violenza di genere e dell’educazione sentimentale.
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Il messaggio di Azzurra Barbuto
Nel suo post, dal titolo emblematico “CECCHETTIN, IMPROBABILE MAESTRO DELL’EDUCAZIONE SENTIMENTALE”, Barbuto critica il modo in cui i media hanno elevato la figura di Gino Cecchettin a simbolo morale e intellettuale. Secondo la giornalista, la stampa e il dibattito pubblico avrebbero trasformato un uomo comune in un punto di riferimento etico e culturale solo in virtù del dolore subito.
Scrive Barbuto: «Cecchettin ha assunto, agli occhi dei media, l’autorevolezza di un grande intellettuale. Ci spiega cosa deve insegnare la scuola e cosa no, come devono parlare gli uomini, cosa devono cantare i rapper, come devono agire i genitori, cosa devono pensare le donne, cosa deve modificare la società patriarcale, a suo dire».
La giornalista sottolinea come questa narrazione rischi di sfociare in una “società della vittimizzazione”, in cui non si ottiene spazio o credibilità per ciò che si costruisce, ma per ciò che si patisce.
CECCHETTIN, IMPROBABILE MAESTRO DELL’EDUCAZIONE SENTIMENTALE
— Azzurra Barbuto (@AzzurraBarbuto) November 12, 2025
Gino Cecchettin ha assunto, agli occhi dei media, l’autorevolezza di un grande intellettuale.
Ci spiega cosa deve insegnare la scuola e cosa no, come devono parlare gli uomini, cosa devono cantare i rapper, come devono… pic.twitter.com/9Ih5aINXKs
La critica alla cultura della vittima
Nel ragionamento di Azzurra Barbuto, la figura di Cecchettin diventa il simbolo di un meccanismo mediatico più ampio: quello che, a suo giudizio, premia il dolore e lo trasforma in autorialità. L’autrice cita anche uno dei suoi libri, “Quando la vittima rompe il cazzo”, per ribadire un concetto centrale: oggi, dice, la società tende a riconoscere valore non al merito o alla competenza, ma alla sofferenza esibita pubblicamente.
«Non per il valore, non per il merito, ma per il dolore che si rivendica di avere subito e che diventa medaglia e lasciapassare», scrive la giornalista. Secondo Barbuto, questo approccio genera un paradosso: persone comuni, prive di un background culturale o professionale specifico, vengono consacrate come modelli etici per semplice adesione a un’ideologia dominante.
Il paradosso Cecchettin
La giornalista non mette in discussione il dolore umano di Gino Cecchettin, ma la costruzione pubblica della sua figura. Lo definisce «un uomo qualunque», che di mestiere «vende prodotti elettronici» e che, in passato, avrebbe scritto commenti ritenuti sessisti o volgari.
Eppure, oggi, aggiunge Barbuto, «è diventato per la sinistra il simbolo dell’antisessismo». Una contraddizione evidente, scrive, che mostra come la coerenza personale venga spesso sacrificata sull’altare della narrazione ideologica. In questo senso, Cecchettin rappresenterebbe un caso emblematico: un uomo che, attraverso il dolore, è stato trasformato in un veicolo mediatico per un messaggio politico e culturale preciso.
Il rapporto tra media, dolore e autorevolezza
Il post di Azzurra Barbuto solleva una riflessione più ampia sul ruolo dei media nel definire i simboli del nostro tempo. L’autrice denuncia una tendenza sempre più marcata a confondere il patimento personale con la competenza pubblica. In questa logica, il dolore diventa una valuta sociale, capace di garantire visibilità, contratti editoriali e spazio nei talk show.
«Noi siamo quello che facciamo, non quello che gli altri ci fanno», scrive Barbuto in chiusura del suo messaggio. Una frase che sintetizza il cuore della sua critica: la necessità di recuperare un senso di responsabilità individuale e di valorizzare il merito rispetto alla sofferenza elevata a status.

Una polemica che divide l’opinione pubblica
Il messaggio ha inevitabilmente diviso il pubblico. Da una parte, chi riconosce a Gino Cecchettin il merito di aver trasformato una tragedia personale in un momento di consapevolezza collettiva sulla violenza contro le donne. Dall’altra, chi condivide la posizione di Barbuto, ritenendo che la narrazione mediatica tenda a santificare la vittima e a strumentalizzare il dolore.
La polemica tocca un nodo sensibile della cultura contemporanea: il confine tra empatia e idolatria, tra la legittima elaborazione del lutto e la costruzione di nuovi miti sociali.
Conclusione: il valore oltre il dolore
Con il suo intervento, Azzurra Barbuto non nega il diritto di Gino Cecchettin a parlare, ma invita a interrogarsi su come e perché certi messaggi ottengano risonanza pubblica. La giornalista richiama a una riflessione sulla responsabilità dei media e sul rischio di un modello culturale in cui il dolore diventa misura del valore.
In un’epoca in cui la comunicazione è dominata dalle emozioni, il post di Barbuto riapre un tema cruciale: la differenza tra autenticità e autorialità, tra testimonianza personale e costruzione mediatica. Un tema che continuerà a far discutere, perché al centro non c’è solo il caso Cecchettin, ma il modo in cui la società sceglie i propri simboli.


