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Lady Macbeth alla Scala: la Prima si apre con l’opera bandita da Stalin

Pubblicato: 07/12/2025 15:02

Una donna ribelle, un’opera maledetta e un dittatore che non tollerava né l’una né l’altra. La Scala apre la stagione 2025/2026 con “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, l’opera che nel 1936 fece tremare il regime sovietico e costò al suo autore una condanna sonora come un gong: “pornofonia”, decretò la Pravda, per ordine di Stalin. Ottant’anni dopo, quella stessa opera irriverente, modernissima e tragica torna al Teatro più conosciuto al mondo come un riscatto necessario. E lo fa con una squadra di fuoriclasse guidati da Riccardo Chailly, alla sua dodicesima e ultima inaugurazione come direttore musicale, e dalla regia del russo Vasily Barkhatov, trentanovenne abituato a scardinare cliché. 

Il mito proibito di Šostakovič

A colpire, più ancora della potenza orchestrale, è la storia parallela dell’opera stessa. Quando Šostakovič la compose, aveva 24 anni e un’audacia che oggi definiremmo tranquillamente “incoscienza creativa”. La doppia prima del 1934 fu un successo travolgente: duecento repliche in due anni, pubblico in delirio, critici divisi ma affascinati. Poi, nel 1936, Stalin si presentò a teatro. Il resto lo fece la Pravda con un articolo destinato a entrare nella storia della censura. L’opera scomparve dai cartelloni sovietici come un fantasma impronunciabile e il giovane compositore entrò nel cono d’ombra di un ostracismo lungo decenni. Per questo, portarla alla Scala oggi non è soltanto un gesto artistico: è una presa di posizione culturale, una restituzione di dignità a un lavoro schiacciato dalla politica. Chailly lo dice senza giri di parole: “Non è coraggio, è un atto dovuto verso un gigante del Novecento”.

Katerina, la donna che sfida il suo destino

Il cuore dell’opera è Katerina Izmajlova, interpretata dal soprano americano Sara Jakubiak, che già avverte il pubblico: “Allacciatevi le cinture”. E non esagera: la parte è un Everest vocale, un personaggio estremo, una donna che lotta per una felicità che le viene negata da tutti. La trama, che nasce da un racconto di Nikolaj Leskov, è un vortice di desiderio, violenza, ribellione. Katerina è intrappolata in un matrimonio-cadavere con Zinovij, sotto il controllo sadico del suocero Boris. L’arrivo di Sergej, il garzone audace e seducente, accende la miccia: adulterio, avvelenamenti, omicidi, una spirale che trascina tutti verso un finale da tragedia russa, fra lavori forzati e un suicidio che trascina con sé una rivale innocente. Non è solo un melodramma nero: è lo sguardo di Šostakovič sulla condizione femminile, che voleva raccontare in un trittico mai realizzato. Una donna che non si adatta, che non ubbidisce, che prende la vita e la morte a morsi.

Niente Russia rurale, ma una capitale sospesa

Barkhatov, al debutto scaligero, ha voluto liberare l’opera dalla “patina” di un secolo di tradizione. Dimenticate il villaggio russo, via i costumi folklorici. L’azione è ora ambientata in una capitale novecentesca, con scenografie di Zinovy Margolin che alternano il lusso di un ristorante scintillante alla povertà delle zone operaie. Una scelta che amplifica il contrasto morale: la violenza domestica di Katerina non è più confinata in un microcosmo arcaico, ma si incunea nella modernità, dove tutto è più spietato perché tutto è più visibile. Il cast è di livello altissimo: oltre a Jakubiak, Najmiddin Mavlyanov (Sergej), Alexander Roslavets (Boris) e Yevgeny Akimov (Zinovij), affiancati da comprimari freschi e potentissimi. Chailly parla apertamente di “mostruosità tecniche” superate da coro e orchestra: ritmo feroce, sillabazione brutale, un muro sonoro che non perdona. 

La Prima più attesa: tra politica, scandali e passione

Il 7 dicembre è sempre rito, mondanità, simbolo. Anche quest’anno il parterre è un mosaico di istituzioni, diplomazia, spettacolo: Liliana Segre, Pierfrancesco Favino, Achille Lauro, Mahmood, ministri, giuristi, étoile. Ma la vera protagonista resta lei: Lady Macbeth, la più scandalosa che Šostakovič abbia mai sognato, tornata finalmente a parlare con la sua voce originaria. Tre ore e quaranta di opera che non fa prigionieri, con un avviso sui tablet dei sottotitoli che per la prima volta alla Scala avverte di “scene potenzialmente perturbanti”. E in fondo è giusto così. Quest’opera non è mai stata pensata per rassicurare. È un grido di libertà soffocato dalla Storia e ora liberato, nel teatro che più di tutti sa trasformare la musica in mito. Questa sera, alla Scala, torna un’opera vietata dal potere e liberata dall’arte. E già solo questo, prima ancora della musica, vale il prezzo del biglietto.

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Ultimo Aggiornamento: 07/12/2025 15:33

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