Vai al contenuto

Delitto Moro: “Fu colpito da 12 proiettili. Uno ancora nel corpo”

Pubblicato: 02/11/2019 11:17

Dodici colpi, non undici come dichiarato dai brigatisti, uccisero Aldo Moro nel 1978. A stabilirlo nuovi risultati degli accertamenti del Ris disposti dalla Commissione Moro 2. Un esito che ribalta quanto finora stabilito e riportato negli atti dei vari processi, smentendo le versioni delle Brigate Rosse sulla morte, che a quanto pare non fu rapida, Presidente della DC.

Dodici colpi, non undici: una nuova versione sul delitto Moro

Aldo Moro, stando ai risultati del Ris, sarebbe stato colpito da “otto calibro 7,65 estratti dal cadavere durante l’autopsia; due calibro 7,65, ritrovati tra la maglia intima e la camicia; due fuoriusciti dal corpo, perforando la giacca e la coperta”.

Furono dodici i colpi, dunque, con cui i brigatisti uccisero Moro nel 1978. Un nuovo elemento che, come scrivono nel libro “Moro, il caso non è chiuso” Giuseppe Fioroni, già Presidente della Commissione Moro 2 e Maria Antonietta Calabrò, giornalista, fa presumere che il colpo d’arma da fuoco finora sconosciuto si trovi ancora nel corpo di Moro. Una semplice radiografia, avvenuta sul cadavere del politico, avrebbe accertato la presenza del proiettile: peccato che il referto dell’esame – che fu eseguito post mortem dopo il ritrovamento del corpo- non risulta più agli atti, come scrivono Fioroni e Calabrò.

Moro potrebbe non essere morto sul colpo

Un altro aspetto dei resoconti brigatisti non convince i due autori del libro: i rapitori del Presidente di Democrazia Cristiana sostengono da sempre che Moro sia morto sul colpo. Il Ris, però, ha individuato sul bavero della giacca di Moro un rivolo di saliva, come sostenuto dal comandante colonnello Ripani nel 2015, che sarebbe stato espettorato quando il politico era ancora in vita dopo esser stato colpito dai proiettili.

Anche l’autopsia svolta il 9 maggio del 1978, basata sul rigor mortis, ha fornito risultati oggi rivedibili: stando ai referti dell’epoca, Moro sarebbe morto a 15 minuti da quando i colpi l’avevano centrato. Ma alle 19 del 9 maggio, come stabilito sempre dal Ris, in realtà si osserva che il rigor mortis non è ancora completo: Moro potrebbe aver dovuto patire una lunga agonia.

La nuova ricostruzione

“La narrativa della morte sul colpo”, spiegano Fioroni e Calabrò, “è servita a celare la verità su come sono andati realmente i fatti. Moro non è disteso nel cofano quando inizia a essere colpito, perché – è un fatto certo – i colpi arrivano non dall’alto verso il basso, come sarebbe avvenuto in quel caso, ma al contrario dal basso verso l’alto. Tanto da far pensare che l’esecuzione possa addirittura essere cominciata quando lui era in piedi“, spiegano i due autori.

La ricostruzione quindi escluderebbe che la stessa mano che ha ucciso Moro in maniera “barbara e imprecisa” sia quella che mette in atto la strage di via Fani, in cui Moro, il vero obiettivo, non viene colpito da nessuno dei 93 colpi esplosi e che uccideranno la sua scorta. Per tracciare le loro ipotesi, Fioroni e Calabrò si sono basati sulle dichiarazioni di Anna Laura Braghetti e Germano Maccari rilasciate tra il 1993 e il 1996: a quanto pare, la Braghetti fu il palo durante l’esecuzione, a cui assistettero soltanto lo stesso Maccari e Mario Moretti. Quest’ultimo, fatto distendere Moro nel bagagliaio della Renault 4, avrebbe puntato contro il Presidente della DC una prima pistola, che si sarebbe inceppata: a quel punto Maccari avrebbe passato una mitraglietta Skorpion con cui Moretti avrebbe sparato a Moro. Stando alle analisi del Ris in possesso della Commissione Moro 2, il politico sarebbe stato colpito dapprima da tre colpi al torace sinistro, anche se tuttora non è chiaro se questi siano stati esplosi mentre Moro era seduto o sdraiato, nel bagagliaio o sui sedili posteriori della Renault.

I soldi da un uomo d’affari israeliano

Nel libro di Fioroni e Calabrò si approfondiscono anche una serie di dinamiche poco note e mai raccontate finora sugli anni di piombo, con particolare attenzione al delitto Moro. Il denaro per la liberazione del Presidente della DC, ad esempio, venne fornito al Vaticano da Shmuel Sammy Flatto-Sharon, membro del Parlamento israeliano fino al 1981, la cui identità è stata confermata da Monsignor Fabio Fabbri nel 2017. Una versione che ha smentito l’ipotesi che fosse stato Paolo VI ad aver tentato, con una cifra di 50 miliardi di lire, di salvare Moro.