Sta passando sotto traccia, quasi come se non fosse una notizia. Ma in questi giorni una notizia c’è davvero: ed è la nomina di Padoan, ex ministro dell’economia, come Presidente di Unicredit, seconda banca in Italia per patrimonio gestito.
Padoan ha terminato il suo secondo mandato da Ministro (prima con Renzi, poi Gentiloni) il primo giugno 2018. Se c’è una cosa su cui Padoan si è distinto è stato un certo impegno pubblico, anche di risorse a favore della banca Monte dei Paschi, oggi identificata da numerosi osservatori come target di possibile acquisizione da parte di Unicredit, in un’ottica di espansione del colosso internazionale.
E’ utile ricordare che durante il mandato ministeriale di Padoan, lo Stato era entrato nell’azionariato di MPS attivando un contributo fino a 5 miliardi di euro (con il Decreto Legge 237/2016), salvando la banca dal baratro: secondo la BCE la carenza di capitale in MPS ammontava a 8.8 miliardi di euro. Un salvataggio di tale portata richiede una precisa volontà politica, comprensibile, per evitare possibili ripercussioni di sistema, ma pur sempre discrezionale. Una volontà che Padoan ha sempre dimostrato di avere, rivendicata con azioni e dichiarazioni pubbliche.
MPS non è stata l’unica banca a beneficiare dell’intervento dello Stato: numerosi istituti di credito, trovandosi nella medesima situazione, hanno potuto accedere a uno o più strumenti di “sollievo” favoriti dallo Stato. Nessuno vuole dubitare della buona fede dei nostri rappresentanti istituzionali, ma in un Paese democraticamente avanzato, una persona che ricopre una carica pubblica così determinante (per leggi, risorse e scelte) per gli equilibri di medio-lungo termine di una o più società, non dovrebbe ritrovarsi a ricoprire incarichi in queste stesse società per almeno qualche anno. Il tempo di poter creare una giusta distanza tra l’azione politica o amministrativa e l’interesse economico.
Il rischio che un civil servant utilizzi, più o meno consapevolmente, la sua carica pubblica per potersi costruire una carriera successiva, è infatti sempre dietro l’angolo. Come esiste il rischio che un’impresa che agisce in settori altamente regolamentati possa agire (con finanziamenti alla politica o altre attività) allo scopo di poter ricavare un possibile beneficio in termini di azione normativa.
Alcuni Paesi hanno regolamentato quelle che vengono chiamate in inglese le “revolving doors”, ovvero meccanismi di entrata e uscita di politici e manager da settori altamente regolamentati dal settore pubblico.
In una democrazia avanzata, non dovrebbe nemmeno servire una legge a regolamentare il fenomeno, ma potrebbero persino bastare i codici deontologici ed etici delle società.
In Italia, però, il tema del conflitto di interesse sembra non interessare nessuno: alla politica, all’industria, ai media. E finché nessuno si occuperà di perimetrare, individuare e regolare i conflitti di interesse non saremo mai sicuri di vivere realmente in una democrazia.