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Dobbiamo cambiare le parole

Pubblicato: 27/11/2020 08:57

Il 25 novembre, come accade ogni anno da quasi venti, si celebra la giornata internazionale “per l’eliminazione della violenza contro le donne”, titolo molto audace per un tema che richiede ben più di una riflessione.

L’argomento può essere affrontato a partire da molteplici punti di vista, procedendo a ritroso, fino a mamma e papà che utilizzano pessime parole come “maschietti” e “femminucce” oppure fino al padre Lorenzo creato da Shakespeare il quale insulta il volubile Romeo, in Romeo e Giulietta, dicendogli che in un lui alberga lo spirito di una donna, come se questo fosse il peggiore dei mali.

Insomma, dopo un periodo “selvaggio” in cui la cultura prevedeva che il concetto di patrilineo fosse equiparato a quello di matrilineo, la cosiddetta “civiltà” ha creato nuovi mostri, una sorta di virus malefico che si annida ovunque, anche dove non te lo aspetti, pronto a esplodere all’improvviso.  

Contro la violenza?

Chi mi segue sa che spesso cito il linguista cognitivo George Lakoff, il quale sulla base dei risultati di quarant’anni di ricerche sottolinea con chiarezza lapalissiana che “evocare un frame” lo rinforza e “negare un frame lo rinforza”. Ovvero, in parole molto semplici, dire di essere “contro” qualcosa ne legittima in qualche modo l’esistenza e soprattutto non ci dice qual è la direzione da prendere.

Anche se può sembrare scontato, dopo tutto se “sono contro la violenza” significa che “sono a favore della pace” (così diceva, fra gli altri, Madre Teresa), per il cervello umano e soprattutto per una radicale trasformazione dei comportamenti a cui ahimè ogni giorno assistiamo è necessario rendersi conto che di cose scontate non ce ne sono proprio.

Il tema “donna” è ricco e sfaccettato, spesso confuso: violenza, femminismo, sessismo e altri termini simili sono utilizzati in modo alterno e senza troppo spirito critico e, in aggiunta a questo, spesso sono utilizzati senza conoscerne a fondo il significato.

Come ironicamente sottolinea la scrittrice “femminista, di colore, amante dei tacchi, amante degli uomini” (si definisce lei così) Chimamanda Ngozi Adichie, spesso si pensa alla femminista come a una donna “che non si rade, che non si trucca, che ha i peli sulle gambe, che non usa il deodorate, di sinistra, che odia gli uomini” e così via.

Insomma, la questione per molti è ancora oscura. Se noi non abbiamo nemmeno la coscienza di quello che le parole davvero vogliono dire, è difficile che possiamo utilizzarle in modo consapevole e che, di conseguenza, possiamo fare tutte quelle correzioni che servono per rendere il mondo un posto più pulito e respirabile.

Perché il femminismo, ad esempio, non dovrebbe essere mentalmente evocativo di quegli stereotipi evocati dalla scrittrice nigeriana (confesso che l’immagine della femminista che non usa il reggiseno, non si depila e odia gli uomini ha albergato per anni anche nella mia mente e anche ora, sebbene soppiantata da una versione diversa del termine, ancora gironzola nei meandri reconditi della memoria) ma evocativo di una cultura di rispetto vero e concreto come quella propugnata, ad esempio, dall’eccellente Lorenzo Gasparrini nel suo “non sono sessista ma…” (Tlon edizioni) il quale offre un interessante (e angosciante) viaggio nel mondo del sessismo, svelandone misteri e trappole.

Violenza e semantica

La violenza verso le donne è un male che ha radici lontane, che sprofondano in terreni ai quali non sono sicuro molti vogliano guardare, ed evitatemi, vi prego, il tristissimo commento “siamo contro la violenza di tutti i generi”, perché svilisce il problema che le donne devono vivere quotidianamente e che nessun uomo, nemmeno da lontano, può immaginare. Quando leggo questi commenti sui social, scritti inevitabilmente da un uomo, mi si stringe il cuore di compassione, nel vedere quanta ignoranza e quanti stereotipi ancora albergano nelle menti di molte persone.

Forse, c’è da intendersi sul termine “violenza” e qui la semantica può venirci in aiuto. Che cosa intendiamo per violenza? Se il significato di violenza contro una donna è banalizzato nel “picchiare una donna”, allora il problema assume una certa dimensione. Importante, drammatica, ma limitata.

Se il significato di violenza contro una donna è esteso a tutti quei casi in cui una donna ha minori opportunità rispetto a un uomo per il solo fatto di essere donna, è valutata anche in base alla sua avvenenza (fatto biologico e inevitabile, si intende, ma superabile da un minimo di sforzo mentale), se tutte le qualità peggiori che si attribuiscono a un uomo sono collegate al genere femminile, allora il problema assume proporzioni colossale, e diventa impellente quanto una pandemia. E sta succedendo adesso, mentre io scrivo. Adesso, mentre digito sui tasti, un papà qualsiasi in una qualsiasi parte del mondo sta dicendo a suo figlio di non frignare come una femminuccia. E questa è violenza, questo è il seme che crea paradigmi semantici che poi si traducono o possono tradursi in comportamenti di disprezzo, i quali a loro volta possono tradursi in comportamenti fisicamente aggressivi? Colpa dei papà che parlano in questo modo, quindi? Non necessariamente e non solo. C’è tanto altro. Ma c’è anche questo, e va tenuto presente. Minimizzarlo, “che cosa vuoi che sia figurati se è per questo” è imprudente, sciocco e dichiara scarsa conoscenza del potere del linguaggio. 

A favore di cosa?

A favore di che cosa, sono, dunque? Di tante cose. In primis, di una cultura che parta da lontano, da quei “maschietti e femminucce” che proprio non si possono sentire. Una cultura che oltre alla contrarietà alla violenza (cosa buona e giusta) arricchisca il discorso con un favore verso valori come abbraccio, valore, uguaglianza. Sono a favore di corsi per genitori che spieghino loro come si cambia un pannolino, come si aiuta un bimbo che sta soffocando per aver inghiottito un bullone e che come si parla a un figlio maschio che piange. Che non è un maschietto, che non è una femminuccia, che non è un essere umano “forte” rispetto a un altro essere umano “debole”.

Già, i semi della violenza sono anche in questi stereotipi, nello sguardo di condiscendenza che una mamma o un papà hanno verso una bambina che piange, che tanto a lei è concesso, dopo tutto è femmina e le femmine, si sa, sono il sesso debole e nello sguardo di rimprovero che la stessa mamma o lo stesso papà hanno verso un bambino che piange, perché i maschi sono forti e non piangono. Sennò sono femminucce o, orrore, finocchi. E qui si apre tutta un’altra parentesi, a cui dedicheremo altrettante parole.

La verità è che da che mondo è mondo te la prendi con chi sia più debole: l’essere umano è progettato per attaccare chi sa di poter sconfiggere. E forse, dico forse, se l’uomo pensasse alla donna non più come al sesso debole grazie agli insegnamenti di mammina e papino ma come a un essere umano di pari dignità, sensibilità e forza, forse e dico forse fra qualche tempo ci ricorderemo del 25 novembre come di un giorno in cui si parlava di un mondo che non esiste più, un mondo in cui ancora esisteva la necessità di istituire, ad esempio, le quote rosa, che sono una della massime espressioni offensive nei confronti di tutte quelle professioniste messe in condizione di avere uno spazio non perché se lo meritano ma perché è riservato loro per legge, in quanto categoria debole. Ecco, sogno un mondo in cui le quote rosa non servano più, un mondo in cui un uomo che piange è semplicemente un uomo che piange