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Come diventeremo asociali

Pubblicato: 18/12/2020 08:57

Chi si occupa di comunicazione, in qualsiasi sua forma, dalla propaganda politica al marketing, lo sa: a forza di ripetere un concetto, questo concetto entra nella testa delle persone e diventa vero.

Per dirla con il mio amato George Lakoff, evocare un frame lo rinforza. Per dirla con Joseph Goebbels (sì, proprio il ministro della propaganda Nazista, colui che continuando a raccontare la storia in cui le sue menomazioni fisiche erano causate dal suo eroismo in battaglia aveva fatto dimenticare a tutti che in realtà era la causa del suo rigetto da parte dell’esercito): se dici una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà.

E, infine, per dirla con uno dei miei filosofi preferita, Wittengstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, nel senso che vedremo tra poco insieme. 

Cervello ed empatia

Molte persone credono, erroneamente, di sapere che cosa sia l’empatia e come funziona. In realtà, pochi sanno che l’empatia, oltre ad essere un fatto emotivo del tutto irrazionale, è fonte spesso di decisioni inique, di disparità sociali, di problemi sociali che hanno importanti ripercussioni sul sistema in cui ci muoviamo ed operiamo.

Lascio al lavoro straordinario di Paul Bloom (“Contro l’empatia”, edizioni Liberilibri) il compito di documentare dal punto di vista scientifico le affermazioni così audaci che ho sottoposto alla vostra attenzione poco sopra.

Qui, mi concentro su uno dei tratti irrazionali che la caratterizzano, ovvero la distanza. Il nostro cervello, infatti, senza che ne siamo minimamente consapevoli, “incarna” la distanza che ci separa da altri esseri umani e la trasforma in sensazione, in realtà oggettiva per chi la vive.

Una breve rassegna di modi di dire e metafore che utilizziamo ogni giorno chiarirà il concetto più di qualsiasi altra spiegazione scientifica. “Voglio starti vicino in questo momento”. “Dobbiamo restare uniti”. “Ti sento un po’ distante”. “Prendo le distanze da quelle idee”. “Restiamo in contatto”. “Faremo questa cosa fianco a fianco”. “Sono al tuo fianco”. “Allontana da te quel pensiero”. “Devi restarle/restargli vicino”. “Voglio guardare la cosa più da vicino” e così via, frase dopo frase.

Il senso è chiaro: “vicino” è buono, “lontano” è cattivo o, comunque, distaccato, emotivamente assente. Lo diciamo anche di noi stessi, quando ci sentiamo coinvolti e desideriamo, per l’appunto, prendere una posizione più neutrale rispetto a un argomento: “voglio analizzare la questione con sguardo distaccato”.

Vediamo ora come funziona il cervello rispetto a questa categoria mentale. Immaginate, per un attimo, che un negozio davanti al quale passate ogni mattina prima di recarvi al lavoro, all’improvviso chiuda, “causa Covid-19”. Saracinesca abbassata, per sempre. Non siete mai entrati in quel negozio e non conoscete il proprietario, ma sono più che certo che un minimo di coinvolgimento potreste averlo. “Toccare con mano, così da vicino” uno degli effetti di mesi di Covid potrebbe, almeno un po’, turbarvi. Magari, potreste parlarne a cena, o sul lavoro, dicendo che questa cosa vi ha “toccato da vicino”.

Ora immaginate che un negozio identico a quello che ha chiuso sotto casa vostra (stessa metratura, stessi articoli venduti, stessa tipologia di vetrina) e del quale, anche stavolta, non conoscete il proprietario, chiuda in un lontano villaggio africano, a migliaia di chilometri di distanza. Vi farebbe lo stesso effetto? No, per nulla. È matematico. L’empatia cresce al diminuire della distanza fra i soggetti. Ed è a questo punto che dovrebbero drizzarcisi i capelli in testa.

Parola d’ordine, distanza

Lasciamo il villaggio in Africa e torniamo al qui e ora. Distanza sociale. Mantenete la distanza. Vuoi fare un favore alla comunità? Mantieni la distanza, non dare la mano a nessuno e, per carità, a quell’abbraccio che stavi per fare nemmeno devi pensarci.

La questione Covid ha prodotto una serie di cambiamenti comportamentali di cui dobbiamo tenere conto. Il più evidente è che siamo costretti a stare fisicamente più distanti. Lasciando per un attimo perdere le folli immagini di persone ammassate in coda per andare a sciare o degli assembramenti per le vie di Napoli in occasione dei funerali di Maradona (giusto per fare due esempi che parlino di idiozia spaziando dal Nord al Sud, a testimonianza che l’assenza di ragione produce brutti scherzi, quale che sia la collocazione geografica), nella maggior parte dei casi le persone mantengono la distanza “sociale” (così come la definiscono i politici e le autorità): nei negozi non ci si tocca, sulla metro si sta un po’ più lontani del solito, di certo abbiamo perso lo stimolo a scambiarci pacche sulle spalle e abbracci per la strada, al cinema (se ci si va) scordiamoci di guardare il film romantico con la testa di nostro marito/nostra moglie sulla spalla e così via.

Questo è il dato oggettivo, al quale possono e potranno corrispondere cambiamenti dal punto di vista emotivo: meno empatia, meno desiderio di socialità, maggior tendenza a comportamenti egoistici.

A ciò si aggiunge un altro aspetto, forse ancor più rilevante del primo, ovvero la continua promozione dell’idea che mantenere la distanza sia un comportamento virtuoso, da bravo cittadino, che merita il plauso. E. per carità, magari in questo momento storico lo è ma il cervello non va tanto per il sottile, lui si occupa di creare connessioni e schemi che gli semplifichino l’esistenza.

Questi messaggi, dunque, stanno creando una equazione mentale che, se non cambieranno repentinamente le cose, potrebbe solidificarsi in un pattern, incarnarsi a livello culturale e diventare un nuovo modo di intendere la socialità. L’equazione è “se sto lontano dagli altri sono meritevole”, con le conseguenze di cui abbiamo parlato.

Diventeremo una specie di creature asociali? Diventeremo tutti ancor più egoisti di quanto già siamo? Ci evolveremo (o involveremo) in una civiltà di creature sole anche se in gruppo? Chi lo sa. Quel che è certo è che questa prospettiva andrebbe presa seriamente in considerazione.

Quel che possiamo fare noi, nel frattempo, è insistere con le parole. Proprio perché il cervello, come detto più volte, non fa alcuna differenza fra il linguaggio figurato e il linguaggio letterale (pensare di “cogliere l’occasione” attiva le stesse aree cerebrali che si attivano quando “cogliamo” una mela e il solo pensiero di una carezza potrebbe farci venire i brividi anche se nessuno ci sta toccando), possiamo gestire questo momento decuplicando l’uso di frasi e parole che richiamino al contatto, alla vicinanza.

Nella prossima web call, potremo dire a chi ci ascolta che saremo loro vicini, che li seguiremo fianco a fianco, che potranno toccare con mano quanto è vicino il risultato verso il quale stanno correndo. E salutarli con un “caloroso abbraccio”, ça va sans dire. È la stessa cosa di star loro vicini per davvero? No di certo, ma è un modo per gestire quel che non possiamo controllare. E questo è tanto.