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Piotta è Caravaggio per Netflix: i chiaroscuri di Roma nella colonna sonora di Suburra – La serie

Pubblicato: 17/02/2021 19:24

Una meticolosa indagine umana all’interno dei personaggi di Suburra – La Serie (di cui si è fatto traduttore in termini musicali di tutta la terza ed ultima stagione) e al contempo un personale viaggio in un tempo che definisce “sospeso“, quello di Roma che lo ha visto nascere e crescere come uomo e come musicista. Tra sfumature e contrasti, inizi e finali, giorni e notti: Piotta, pseudonimo di Tommaso Zanello, si racconta a The Social Post partendo dalla sua ultima impresa, la sfida internazionale che lo ha visto confezionare l’intera colonna sonora della terza stagione della celebre serie Netflix Suburra – La serie.

Dalla sfida dal respiro internazionale combattuta nel salotto di casa propria, in pieno lockdown, al surf sui ricordi del passato che ancora echeggiano i ritmi de La grande onda. Un viaggio tra le virtù e i vizi di Roma che confluiscono ora nell’ultimo videoclip del singolo È ora di andare.

Piotta e l’impresa internazionale al fianco di Suburra – La serie

Come, dove e quando si sono incrociate la strada di Piotta e quella di Suburra – La serie?

Bisogna andare indietro nel tempo, risalire fino al 2017, quando Suburra è diventata in assoluto la prima serie prodotta da Netflix Italia. C’era interesse e una forte aspettativa, una gran curiosità di vedere per la prima volta Netflix in azione qui da noi. Per la prima volta una serie italiana si trovava a dover competere con quelle internazionali ed io arrivavo dall’album Nemici. Dentro c’era proprio questo singolo, 7 vizi capitale: era nata da sola, per il disco, quando poi l’abbiamo sincronizzata alle immagini sembrava che l’avessi scritta dopo aver letto la sceneggiatura, era perfetta.

Che sensazione è stata quando ti hanno proposto questo importante progetto?

Ricordo perfettamente quando mi è arrivata l’email, dissi di sì subito, mi faceva piacere e oltretutto mi piaceva farlo per Netflix che in quel caso stava lavorando per la prima volta su un progetto in Italia. Trascorso un mese, una nuova mail: ci chiedevano se eravamo interessati ad usare la stessa canzone non in una singola puntata ma in tutte, come sigla. In quel momento pensai solamente “figata”, avrei avuto la possibilità di avere mia la sigla della prima serie prodotta in Italia e poi distribuita in 192 Paesi, ero curioso di scoprire come avrebbe reagito il pubblico estero.

Suburra, il primo progetto italiano di Netflix

Che riscontro hai avuto dall’estero?

C’è una cosa che mi colpisce sempre e in questo caso forse anche di più: sembra a tutti gli effetti che anche persone di Città del Messico siano riuscite a cogliere lo spirito del brano come se abitassero e vivessero Roma. È merito della musica, di quegli accordi, della melodia, dell’arrangiamento e ciò mi conferma che la musica a volte riesce a fare quello che le parole non riescono. Per quanto le parole siano fondamentali la musica ha in sé quella magia emotiva e primitiva capace di trasmettere emozioni senza dire nulla.

Che tipo di impegno ti ha richiesto realizzare un lavoro così personale e introspettivo legato al tempo stesso ad una trama importante come quella di Suburra sapendo, oltretutto, che avresti dovuto comunicarlo a prescindere da chi Roma la vive e la conosce?

Non è facile anche perché vivendo Roma da sempre è abitudine per me coglierli. Quando però riesci a trasmetterli a qualcuno così lontano e arrivano riscontri positivi, a obiettivo raggiunto, c’è stupore. È una bella responsabilità mettersi in studio con un computer e un microfono e, salvo attacchi di panico quando non ti vengono idee, e pensare “cavolo, se quello che scrivo adesso piace farà il giro del mondo”, è stimolante e permette di far uscire il meglio di sé.

Complice il lockdown: “Mi ha aiutato ad entrare in un clima sospeso

Un progetto internazionale, tanto lavoro ma allo stesso tempo un lockdown: com’è stato fare musica ai tempi del Covid?

È stato come fare una torta, ho lavorato a strati. La prima ondata del Covid ha bloccato tutto e purtroppo ora sembra ci siamo un po’ abituati. Avevamo trovato l’accordo con Netflix 10 giorni prima del primo lockdown ed eravamo rimasti che io sarei andato in studio settimanalmente, avrei visto le immagini e poi sarei ritornato in studio per lavorare e commentare ciò che avevo visto. Di colpo, tutto questo, è saltato, precluso dai Dpcm. A quel punto, per fortuna, la tecnologia ci è venuta incontro e grazie a internet siamo riusciti a lavorare a distanza con la sala montaggio che mi mandava link iper segreti dove potevo vedere parte del pre-montato.

Qual è stata la difficoltà più grande, l’ostacolo più alto da superare?

Non è stato facile realizzarlo: la sala di montaggio mi mancava i video, io buttavo già idee grezzissime che poi mandavo a Francesco Santalucia, con cui ho scritto e post-posto, e che è un pianista incredibile. Prendeva il mio impasto e lo allargava con le sue conoscenze musicali, lo rimaneggiava e me lo rimandava. Io completavo il testo, registravo un provino a casa dove ho montato uno studio, lo rimandavo a lui, lo rifiniva e lo mandavamo di nuovo in sala di montaggio per la prima approvazione. Se superava la prova, si mandava tutto a Netflix Olanda, poi a Netflix Los Angeles e poi ritornava in Italia e in tutto questo già eravamo all’opera sulla musica di un’altra puntata. Poi mandare un audio via internet è tranquillo, ma mandare video e audio insieme è pesantissimo e io in studio ho la fibra, ma qua a casa ho la dsl… e la domenica era connesso tutto il palazzo.

Uno non si immagina di creare una colonna sonora dal salotto di casa propria, scene fantozziane. Una volta avevo provato a mandare un file e mi dava 13 ore di invio salvo interruzioni, ero preoccupatissimo. È stato surreale e poi ovviamente, quando arrivava l’ok definitivo, dovevo allora andare in studio, quello vero, e registrare tutto bene con voci e strumenti.

Quanto credi che abbia influito il lockdown, come clima e atmosfera, sul tuo lavoro?

Il lockdown ha creato e crea quelle problematiche lavorative note a tutti ma ha soprattutto proposto un clima surreale, alla Armageddon, post atomico ma questo clima ha aiutato molto la scrittura dei brani di Suburra. Un clima sicuramente non allegro, triste e che tende ad isolare e per certi versi appunto, surreale. Se avessi dovuto fare la stessa colonna sonora in piena primavera, con un tripudio di urla di bambini che giocano fuori casa e i parchi aperti forse avrei avuto molta più difficoltà invece devo dire che il lockdown, in questo senso, mi ha aiutato ad entrare meglio in quel clima sospeso e cupo che appartiene anche alla serie.

Nel cuore di Suburra: un tema per ogni personaggio e un’indagine “poliziesca”

Dunque prima le immagini di Suburra e poi la musica?

Assolutamente sì, prima le immagini e ti premetto che era nata l’idea di non fare una sola sigla ma più sigle, trattarla come un’opera filmica corale alla luce dei tanti protagonisti di Suburra. I personaggi principali erano almeno 7 e visto che le puntate dell’ultima stagione erano 6, unendo le due figure femminili ho deciso di dedicare a ognuno di loro una canzone proprio come se tutti avessero un proprio tema ma anche un testo letterario che ne spiegasse non tanto le gesta o il loro lato criminale, che traspare già dalla serie in sé, ma che ne indagasse ed esaltasse le caratteristiche umane. “È ora di andare”, il nuovo singolo, è figlio di tutto questo e in generale sono molto orgoglioso di tutta la colonna sonora.

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Qual è stato il personaggio più “difficile” da indagare?

Samurai e per molti fattori: anzitutto il suo tema non poteva avere una promozione come gli altri, spoilerava troppo. Di tutte le ansie da prestazione questa è quella che me ne procurava di più: sapevo che sarebbe stata la prima canzone ad essere ascoltata quindi dovevo centrare subito il punto sul personaggio con la sfida enorme di riuscire a legare il mio percorso musicale ad un progetto che aveva un’anima di per sé. Ho cercato di essere epico nei ritornelli quindi drammatico e poi più aggressivo, quasi da rap classico anni ’90, nelle strofe, riprendendo quel rap tipico romano.

Per ogni personaggio ho fatto una scheda, tipo poliziotto, un riassunto personaggio per personaggio di tutta la sua storia dalla prima all’ultima puntata segnandomi le gesta compiute, le più importanti sia nel bene che nel male e tutta una serie di frasi chiave, di caratteristiche anche in termini di abbigliamento.

Piotta, gli accordi musicali del Caravaggio di Roma

I testi che ha scritto per Suburra sono ricchi di riferimenti letterari, citazioni, arte. Da dove nasce la volontà di dipingere, con le note, una città come Roma?

Mi è sempre piaciuto mescolare l’alto con il basso, la cultura hip hop con quella classica e quando li uso lo faccio con cognizione di causa e volontà. Poi amo tantissimo la pittura, ho anche uno zio pittore, credo di averlo nel dna. Mi piacciono i colori e penso che nei quadri facciano quello che gli accordi fanno nella musica: hanno una forza che annienta le parole.

Roma è un quadro di Caravaggio: tanta oscurità e poi, all’improvviso, quel drappo rosso a cui aggrapparsi e che la illumina. Il perfetto bilanciamento di Roma credo sia alle 4 e mezza, 5 del mattino, proprio il chiaroscuro, quando si assapora tangibile la convivenza di due mondi. Parliamo di un confine, uno scarto che può sembrare netto ma che netto non è e lì c’è la grandezza dell’umanità e in una città come Roma c’è l’essenza di una città intera. A Roma lo si nota anche a livello architettonico dal contrasto dato dal cassonetto dell’immondizia pieno con dietro questa Cupola stupenda che si staglia alle sue spalle in tutta la sua grandezza.

Nel segno del rap: una carriera che ha cavalcato la grande onda degli anni ’90

Credi nell’immortalità delle canzoni?

Certo ma è merito della musica e l’ho visto con La Grande Onda, canzone che era nata autobiografica e che era poi stata ripresa dai ragazzini come inno di protesta alla Riforma Gelmini. È la magia della musica e quando scrivi calcoli di questo genere non li puoi fare. Come i libri, esistono canzoni che riprendi dopo anni e gli attribuisci nuovi significati.

Sei nato, si può dire, insieme al rap italiano: lo hai visto nascere, crescere ed evolversi fino ad oggi. Quand’è che tutto ha avuto inizio?

Ai tempi ancora non esisteva il rap italiano e con i Colle der Fomento ci siamo praticamente inventati questa cosa. Ci piaceva il rap americano, volevamo potesse diventare italiano e non per traduzione ma proprio perché creato qua, con i nostri luoghi, le nostre parole, i nostri pensieri. A Roma eravamo un centinaio di persone e abbiamo pensato: “ma se non fossimo gli unici?”. Anche senza internet ci si era palesata davanti l’idea che anche in realtà come quella di Milano, Torino, Napoli, Bologna potessero esserci altri nostri coetanei amanti del genere, pronti a farlo nostro, italiano e noi, nello specifico, romano, con le citazioni di Roma, le frasi dei film, le battute che sentivamo per strada, lo slang. Quando siamo usciti fuori da Roma ci siamo subito accorti che la stessa idea l’avevano avuta anche altri ragazzi come noi in Italia, ognuno legato al proprio quartiere e per quanto eravamo diversi, ci siamo riconosciuti.

Da quegli anni di nascita ad oggi, dagli anni ’90 alla corrente evoluzione che ha avuto, com’è cambiata la scena musicale rap in Italia?

Oggi la scena è così ampia che contiene tutto ed anche il suo contrario, a volte sembra davvero schizofrenica: è più commerciale e schiava dello streaming e al contempo mantiene quello spirito un po’ più alternativo, grezzo, ribelle. Se a 20 anni avessi sentito la colonna sonora di Suburra credo che ne avrei avuto musicalmente molto rispetto, oggi a 40 ne apprezzo la versatilità. Ci si evolve continuamente e nel mio percorso mi sono confrontato con musicisti all’estero, ho conosciuto strumenti, ho lavorato in studio e man mano che ho fatto cose è come se avessi aggiunto un ingrediente in più di volta in volta alla mia personale ricetta.

Ultimo Aggiornamento: 22/11/2021 12:37