Nel 2018 il Fondo Strategico italiano (FSI) – controllato dalla Cassa Depositi e Prestiti – decise di investire nel rilancio della casa di moda Missoni, fondata nel lontano 1953 da Ottavio e Rosita Missoni, coppia formidabile – nella vita imprenditoriale e affettiva – che si conobbe alle Olimpiadi di Helsinki nel 1948, dove Ottavio arrivò in finale nei 400 metri piani.
Il Fondo di investimento rilevò il 41,2% di Missoni con l’obiettivo di valorizzare la notorietà del marchio e il significativo potenziale dell’azienda, per renderla una protagonista moderna e globale, dotata di organizzazione e dimensioni adeguate, per competere ai vertici del settore della moda e del lusso.
Spesso gli eredi dei fondatori, in tutte le aziende, non hanno le competenze per gestire un’impresa globale che opera in settori caratterizzati da forte competizione. È notizia di qualche giorno fa che il direttore creativo, Angela Missoni, figlia dei fondatori, lascia per passare il testimone ad Alberto Caliri, designer, nell’ambito di scelte di governance impostate dall’amministratore delegato Livio Proli, arrivato nel 2020 dopo una lunga esperienza in Armani.
Un esempio per le imprese italiane
Il caso Missoni è esemplificativo. Infatti sono migliaia le imprese italiane che devono affrontare il passaggio generazionale, momento che viene spesso posticipato fino a che il problema diventa ineludibile. Spesso è troppo tardi. L’erede si trova impreparato al momento di prendere le redini dell’azienda, poiché non gli si è data la possibilità di dirigere (e di sbagliare). Spesso il fondatore non molla e non è disposto a rilasciare deleghe. Invece, nei migliori casi, il processo intergenerazionale va pensato con largo anticipo, scegliendo bene, con logica meritocratica le persone da inserire nei luoghi di responsabilità.
Occorre distinguere tra logica familiare – corretta – e familistica: in questo secondo caso si premia la fedeltà piuttosto che la competenza, impedendo ai migliori soggetti, anche esterni all’azienda, di arrivare nella “stanza dei bottoni”. Bisogna rifarsi al volume del sociologo Edward Banfield “Le basi morali di una società arretrata” (1974), nel quale descrisse mirabilmente la cultura del “familismo amorale” arrivando a ipotizzare che certe comunità sarebbero arretrate soprattutto per ragioni culturali. La loro cultura presenterebbe una concezione estremizzata dei legami familiari che va a danno della capacità di associarsi e dell’interesse collettivo. Gli individui sembrerebbero agire come a seguire la regola: “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”.
L’amoralità non sarebbe quindi relativa ai comportamenti interni alla famiglia, ma all’assenza di ethos comunitario, all’assenza di relazioni sociali morali tra famiglie e tra individui all’esterno della famiglia. In sostanza, se all’interno della famiglia esistono individui adatti al comando (autorevole), ben vengano, ma se non ci sono, è opportuno rivolgersi all’esterno così da garantire a) la separazione tra famiglia e impresa e b) la continuità del successo aziendale.