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Tragedia del Vermicino, quando Angelo Licheri tentò l’impossibile per salvare Alfredino: il racconto 40 anni dopo

Pubblicato: 10/06/2021 13:00

Era il 10 giugno 1981 quando l’Italia conobbe una tragedia che l’avrebbe tenuta con il fiato sospeso, da Nord a Sud: quel giorno Alfredino Rampi cadde in un pozzo artesiano a Vermicino. Angelo Licheri fu uno dei numerosi soccorritori volontari ma fu uno dei pochi che poté parlare con Alfredino e perfino sfiorarlo, senza però riuscire a tirarlo fuori dal pozzo.

40 anni dopo, il ricordo del piccolo Alfredo Rampi è ancora drammaticamente vivo nella memoria di Licheri.

Tragedia del piccolo Alfredino: quando il dramma si consumò in diretta tv

Angelo Licheri, origini sarde e fisico minuto, all’epoca lavorava in una tipografia a Roma. Come tutti gli italiani, venne a conoscenza della tragedia del Vermicino l’11 giugno. “Arrivando al lavoro, ho sentito le due segretarie della tipografia parlare tra loro. Una ha detto: ‘Però, quel bambino, poverino’. E l’altra ha ribattuto: ‘Sì, ma tanto riusciranno a tirarlo fuori, stanno lavorando per questo’ – ha raccontato Angelo Licheri in una lunga intervista su Tgcom24In un primo momento, non sapendo di cosa si trattasse, non ho dato peso alle loro parole”. Licheri racconta poi di aver letto di Alfredino sul giornale di quel giorno, mentre la vicenda del bambino passava di bocca in bocca. Non si parlava di altro, al punto che: “Mentre mi aiutavano a scaricare, mi hanno detto: ‘Angelo, perché non provi a tirare fuori il bambino?’ E io ho risposto: ‘Sto lavorando, non posso mica spostarmi e fare come voglio’“.

Vado a prendere le sigarette“: quando Licheri andò a Vermicino

Vado a prendere le sigarette”. Questa è la frase che Licheri rivolse alla moglie mentre, in realtà, raccoglieva tutta la propria determinazione e guidava in direzione di Vermicino. Erano passati 3 giorni dalla caduta di Alfredino e Angelo Licheri aveva ormai preso la sua decisione. Nella sua intervista, Licheri racconta di aver guidato senza conoscere di preciso l’indirizzo e di aver “incontrato una lunga coda di macchine e ho capito di essere nella direzione giusta. Ho parcheggiato e ho proseguito a piedi perché i carabinieri indirizzavano le auto a dirigersi verso un’altra strada. Ho corso per 2 chilometri e mezzo, forse 3, a testa bassa, come se stessi facendo una maratona” fino a incontrare uno sbarramento dei carabinieri che lo costrinse a intrufolarsi in una vigna, raggiungendo infine la folla radunata attorno al pozzo artesiano. Licheri spiega di aver finto di conoscere Elveno Pastorelli, all’epoca responsabile delle operazioni di salvataggio.

Ho spiegato loro che arrivavo da Roma e avevo l’intento di rendermi utile. Pastorelli mi ha detto che tanti avevano provato ma nessuno era stato in grado. Però mi studiava, mi guardava attentamente”, racconta Licheri, ricordando anche la cocente delusione quando Pastorelli rifiutò il suo aiuto e Franca Rampi, madre di Alfredino, gli disse: “Lei è troppo emotivo, non vorrei che andando a prendere mio figlio, rischiasse anche lei la vita“. La determinazione di Angelo Licheri però ebbe la meglio sulle loro resistenze.

Alfredino, quando Angelo Licheri lo raggiunse nel pozzo

I lunghi momenti della discesa sono ancora vividi nella memoria del tipografo di Roma e forse non svaniranno mai. Licheri si calò con addosso solo la biancheria e un’imbracatura, a causa delle dimensioni del pozzo, continuando “la discesa fino a quando non mi sono imbattuto in una roccia, lì non passavo. Con uno stratagemma, ho sorpassato la roccia, che però mi ha tagliato la pelle dei fianchi e delle spalle, come un macellaio taglia la carne. La mia discesa è continuata fino a che non ho visto davanti a me un ammasso di fango. Non sapevo se fosse il bambino o meno“. Quell’ammasso era proprio Alfredino. “Gli ho tolto il fango dagli occhi con il pollice e dalla bocca con l’indice. Dopodiché, gli ho liberato la mano sinistra – ce l’aveva dietro il ginocchio – non c’è voluto tanto. Mi sono accorto che le ginocchia erano piegate e toccavano il suo petto. L’altra mano, la destra, era dietro il sederino, a contatto col muro, lì ci ho messo tanto tempo a liberarla. Mentre facevo tutte queste manovre, lui ascoltava e rantolava. Gli promettevo tante cose in quei momenti: che gli avrei comprato la bicicletta nuova e che sarebbe stata migliore di quella dei miei 3 bambini, piccoli come lui (il più piccolo aveva la sua età più o meno); che l’avrei portato a pescare. Insomma, cercavo di incoraggiarlo in tutti i modi. E quando smettevo di parlare, lui rantolava perché voleva che continuassi”, racconta a TgCom24 Licheri di quei drammatici momenti più che mai vividi.

Alfredino: il tentativo di salvataggio

Angelo Licheri fu dunque tra i pochi che riuscirono a raggiungere Alfredino, ma la presenza di fango e le dimensioni del pozzo si rivelarono un ostacolo troppo grande. Licheri racconta con lucidità i numerosi e disperati tentativi per afferrare Alfredino e tirarlo fuori: “L’ho imbracato una prima volta, ho dato il segnale alla squadra per tirarlo su, ma lo strattone troppo energico ha fatto sì che la cinghia si sganciasse. Ho tentato una seconda volta la stessa operazione con un’altra tecnica, ma anche in questo caso la cinghia si è sfilata. Allora ho preso Alfredino da sotto le ascelle, ma la sua pelle era talmente scivolosa che non sono riuscito. L’ho preso all’altezza dei gomiti, ma anche in questo caso tentativo fallito. Poi con maggior forza, l’ho afferrato dai polsi e gli ho spezzato quello sinistro, ho proprio sentito ‘trac’. Lui non parlava, però ascoltava e rantolava. Mi sono accorto che aveva sentito dolore perché ha emesso un rantolo forte, sofferto, come per dire ‘Mi hai fatto male’. Lì mi sono sentito in colpa”, spiega Licheri.

Momenti che non potranno essere mai cancellati, dimenticati: “Ho pensato: ‘Dopo quanto sta soffrendo, mancava solo che gli rompessi un polso’. Dopo tutti questi tentativi falliti – perché lui era incastrato come se una ventosa da sotto lo trattenesse – era impossibile continuare. Però era rimasta un’ultima speranza, la maglietta che indossava. Ho provato ad arrotolarla un po’, a prenderne il più possibile. Anche questa, però, ha iniziato a cedere. Non c’era più nulla da fare. Così, gli ho mandato un bacino e gli ho detto ‘Ciao piccolino’. Poi, con un tono disperato, intimavo ai soccorritori di tirarmi su. Una volta tornato in superficie, mi hanno portato in ospedale per le ferite. Sono stato ricoverato per un mese”. Durante questo tentativi, Licheri rimase a testa in giù nel pozzo per oltre 45 minuti. Il tempo massimo in cui è possibile resistere in questa posizione è 25 minuti.

Tragedia del Vermicino, Licheri: “Ci penso sempre

Oggi, Angelo Licheri ha 76 anni e vive in una casa di riposo a Nettuno. Ha il diabete, ha perso una gamba e la vista. Da quando è riemerso da quel pozzo a mani vuote, Licheri racconta di aver perso la sua vivacità, di non essere mai più tornato il ragazzo scherzoso e solare che era sempre stato. Dopo 40 anni da quella tragedia, è ancora in contatto con i genitori di Alfredino ed è tornato più volte sul posto nel corso degli anni. Il suo desiderio è che l’incidente del Vermicino resti “nel cuore di tutti, per me è impossibile scordarla. Nonostante adesso abbia una certa età, il pensiero è quasi fisso. Ci penso sempre. Alfredino mi viene in mente in ogni momento”. Intervistato da TgCom24, ribadisce con orgoglio di non avere nessun rimpianto: “Penso di non aver sbagliato niente. Anzi, ho fatto tanto e forse qualcosa di più – ma nonostante questo poi aggiunte – la parola eroe non mi piace. Gli eroismi sono altri. Quello che ho fatto è un atto di altruismo”. Licheri conclude raccontando di aver contribuito con la sua testimonianza al documentario L’Angelo di Alfredo, prodotto da Quadra film, il cui ricavato contribuisce a fornirgli un sostegno economico.