Alla fine, tutto torna. Allo Stato, sia chiaro. Alitalia e Autostrade per l’Italia, per motivi ovviamente diversi, sono tornate in mano pubblica, a pesare sulle tasche degli italiani, dopo anni in cui per una si è provato a farla volare da sola e per l’altra ci hanno pensato i Benetton.
Come siamo arrivati alla nazionalizzazione
Alitalia ha speso talmente tanto – e malissimo – nel corso degli ultimi 15 anni che si sarebbero potute finanziare almeno una decina di viaggi spaziali alla ricerca di vita su Marte o di un manager capace di non chiedere fondi pubblici per la compagnia di linea, sulla quale l’Unione Europea sta indagando proprio per cercare di capire la liceità di quegli aiuti di Stato che hanno evitato finora il fallimento della società, prossima a passare il testimone a Italia Trasporto Aereo.
Dall’altra parte, invece, c’è ASPI, appena passata nelle mani di un consorzio formato da Cassa Depositi e Prestiti, Blackstone e Macquarie – ma con maggioranza di CDP – dopo un tira e molla tra governo Conte prima e Draghi poi e Atlantia, la holding infrastrutturale della famiglia Benetton quotata sul FTSE Mib. La società autostradale è finita al centro delle polemiche dopo il crollo del ponte Polcevera di Genova, costato la vita a oltre 40 persone, con la parte più intransigente del governo – leggasi i grillini – che ha chiesto a più riprese di revocare la concessione ad ASPI a meno che la sua proprietà non fosse stata trasferita allo Stato, che comunque ci ha speso quasi 5 miliardi, più 2 a testa tra i fondi esteri del consorzio.
In difesa di Alitalia privata
Carlo Stagnaro, direttore delle ricerche dell’istituto Bruno Leoni – di cui fa parte anche Andrea Giuricin, altro esperto della questione – e tra i più attenti osservatori e commentatori della questione Alitalia, ha commentato: “Vanno fatte due considerazioni: intanto, anche quand’era dello Stato, Alitalia funzionava male: dall’inizio degli anni Novanta a oggi, la compagnia è quasi sempre stata in rosso, ha chiuso solo un paio di esercizi in attivo, di cui uno grazie a entrate straordinarie. Quindi, da 30 anni, nessuno è riuscito a far funzionare Alitalia. Uno studio di Mediobanca rivela che dal 1974 al 2014, anno in cui la società fu comprata da Etihad, il costo di Alitalia per lo Stato italiano è stato di circa 7,4 miliardi”.
“Seconda considerazione: se un’Alitalia pubblica produce delle perdite, queste ricadono sulle spalle degli incolpevoli contribuenti mentre, se è privata, ricadono, in teoria, sugli azionisti che hanno investito nella società. E poi chiediamoci qual è l’interesse pubblico: avere un’Alitalia nazionalizzata o un buon servizio di trasporto aereo verso le principali destinazioni? La verità è che il servizio di trasporto aereo c’è a prescindere di Alitalia, visto che la compagnia ha una quota di mercato in Italia di solo il 13%“.
Il quotidiano Panorama scrisse che si potrebbe obiettare che tra un’azienda pubblica che perde e però garantisce i collegamenti con aree poco profittevoli come la Sardegna e una privata che continua ad avere bisogno dei soldi dello Stato, alla fine, è meglio la prima. Ma Stagnaro non è d’accordo: “Per i collegamenti che lo Stato considera essenziali come quelli con la Sardegna non è necessario scaricare i costi relativi su Alitalia: basta introdurre un sussidio esplicito che può essere preso dalla stessa compagnia o da un altro operatore, purché garantisca quel servizio a un dato prezzo. Avere un operatore pubblico come Alitalia per volare a Cagliari è opaco e irrazionale”.
Quanto è costata ASPI
Discorso diverso per Autostrade per l’Italia che, Covid-19 a parte, non è una società economicamente disastrata come la compagnia di linea tricolore. Perché, però, lo Stato si è accollato quest’altro fardello, dovendo anche pagare per eventuali risarcimenti legati al crollo del ponte di Genova?
La valutazione dell’intero capitale di ASPI è pari a 9,1 miliardi di euro. Quindi, l’acquisto dell’88% da parte del consorzio a guida CDP comporta un esborso di 8 miliardi. Ma la nuova società costituita per rilevare la quota di maggioranza dell’asset autostradale si accollerà anche il debito in capo al precedente proprietario, passato da 1,8 miliardi di euro del 1999, ovvero prima che ASPI venisse ceduta dallo Stato, a 10,9 miliardi di quest’anno, ovvero quando la società è tornata sotto l’ala di mamma Italia, con un rapporto di 6 volte rispetto al patrimonio netto.
Se consideriamo che la rete autostradale è rimasta sostanzialmente identica a quella di 22 anni fa, praticamente lo Stato ha riacquistato quello che aveva venduto nel 1999 a un prezzo esageratamente superiore e con un debito più alto di ben dieci volte. Bell’affare.
C’è troppo Stato nell’economia italiana?
Come calcolato da Roberta Amoruso e Andrea Bassi del Messaggero, le imprese industriali controllate dallo Stato e dai suoi bracci operativi, Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia, sono 32, che diventano diverse centinaia se si considerano le controllate delle capogruppo.
Alla fine del 2019, il loro fatturato è stato di 241,4 miliardi di euro, gli utili hanno superato 26,8 miliardi, gli investimenti complessivi sono vicini a 35 miliardi e danno lavoro a oltre 471.000 persone. Calcolando tutte le società italiane con più di 250 addetti, le 32 società controllate dallo Stato – che sono solo una parte delle oltre 6.000 partecipazioni pubbliche complessive –, rappresentano quasi un quarto dei ricavi totali e un decimo degli occupati.
“Le 11 società quotate che sono nel portafoglio dello Stato rappresentano il 30% della capitalizzazione di Borsa. Nel 1992, agli albori della stagione delle privatizzazioni, la galassia delle società dell’Iri fatturava 76.000 miliardi delle vecchie lire che, riportate ai valori di oggi, equivalgono a 65,8 miliardi di euro. Se si vuol davvero capire come il vento è cambiato, basterebbe esaminare le principali operazioni nelle quali lo Stato, direttamente o tramite i suoi due satelliti CDP e Invitalia, è coinvolto. In attesa di vedere dove andranno a finire i 44 miliardi di dotazione del fondo Patrimonio Rilancio, qualche centinaio di operazioni verranno messe a terra nel 2021 coinvolgendo una platea potenziale dei richiedenti di circa un migliaio di aziende”, scrivono i due.
Secondo Stagnaro, alla domanda se ci sia troppo Stato nell’economia italiana, la risposta è una sola: “Direi di sì, siamo tornati a una situazione simile a quella dell’inizio degli anni Novanta, frutto dell’orientamento politico degli ultimi governi. L’esecutivo di Draghi avrà un orizzonte temporale di uno-due anni e vedremo se in questo periodo la presenza pubblica nell’economia aumenterà o no. Per esempio, come saranno usati i 40 miliardi dati a CDP? Per erogare finanziamenti alle aziende in difficoltà o per entrare nel loro azionariato? Sarà questa la cartina di tornasole per capire in quale direzione vorrà dirigersi Draghi”.