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Adelina Sejdini morta suicida: l’aiuto nello sgominare il racket della prostituzione e la cittadinanza negata

Pubblicato: 11/11/2021 20:44

Adelina Sejdini è stata una figura centrale nella lotta contro il traffico di esseri umani in Italia. Vittima lei stessa dei trafficanti, giovanissima è approdata nel nostro Paese dall’Albania per diventare una schiava, è stata torturata e costretta a prostituirsi, fino alla denuncia dei suoi aguzzini che ha portato all’arresto di 40 connazionali. Adelina è morta lo scorso 8 novembre, gettandosi dal ponte Garibaldi di Roma, abbandonata dallo Stato che non le ha mai riconosciuto la cittadinanza. Malata di cancro, si è sottoposta a vari cicli di chemioterapia, ma senza poter accedere a quel supporto che le sarebbe spettato se fosse stata cittadina italiana.

Adelina Sejdini, il traffico di essere umani e la denuncia degli aguzzini

Adelina Sejdini è arrivata in Italia nel 1996, all’età di 22 anni. Una delle tante giovani che dall’Albania vengono portate attraverso l’Adriatico a bordo di un gommone, per poi finire nel giro della prostituzione. La sua storia segue lo stesso schema delle altre: gli stupri, le torture, i tagli sulle gambe “cosparsi di sale per fare più male“, una vita che continua per 4 anni.

Adelina però, il cui vero nome è Alma, alla fine si ribella e contatta il numero d’emergenza dei Carabinieri. La sua denuncia scoperchia un racket della prostituzione controllato dalla mafia albanese, di cui 40 membri vengono arrestati e altri 80 sono gli indagati.

Abbandonata dallo Stato italiano che non le riconosce la cittadinanza

Il suo impegno contro lo sfruttamento della prostituzione la porta nella posizione difficile di non poter tornare in Albania, e nonostante il suo coraggio e il suo impegno non le viene riconosciuta nemmeno la cittadinanza italiana. Adelina Sejdini era titolare solo di un permesso di soggiorno prolungato per motivi straordinari, e risultava come apolide, avendo rifiutato la cittadinanza albanese.

Il supporto delle forze dell’ordine non le mancherà, e nel tempo Adelina diventa un’attivista contro il traffico di esseri umani, con partecipazione in varie associazioni. L’ultimo colpo però arriva con una diagnosi di cancro al seno. Senza la cittadinanza, riconosciuta invalida al 100% ma senza alcun tipo di supporto, costretta a una nuova lotta contro un male insidioso, Adelina si sente abbandonata. Quello Stato in cui ha avuto fiducia denunciando il racket non l’ha protetta fino alla fine.

Il suicidio di Adelina Sejdini a Roma

Alla fine Adelina non ha retto più. Il 29 ottobre si era recata davanti al Viminale e aveva tentato di darsi fuoco, riportando diverse ustioni per cui è stata trasportata all’ospedale Santo Spirito di Roma. La donna era stata vittima di alcuni errori burocratici, per cui dal dirigente dell’ufficio stranieri le era stata assegnata la cittadinanza albanese, ed era stata identificata come lavoratrice. “Non posso più avere i sussidi e la pensione d’invalidità che mi serve per vivere. Ho presentato la domanda per avere una casa popolare, ma adesso me la sogno. I documenti non corrispondono più“, aveva dichiarato.

La disperazione della donna era palpabile: “Ho provato a far presente al dirigente la mia situazione e la risposta che ho ricevuto è stata: ‘Vai da un avvocato’. Non posso rivolgermi a un legale in queste condizioni. E non posso accettare la cittadinanza albanese, dal momento in cui me l’hanno scritto ho gli incubi. Mi ammazzo piuttosto“. Adelina Sejdini il 5 novembre era tornata sotto la sede del Ministero degli Interni, ma invece di una soluzione le è stato dato un foglio di via, assegnato a persone ritenute “pericoli pubblici”. La donna sarebbe stata costretta a lasciare Roma per un anno e tornare a Pavia, dove risiedeva. La sua storia, invece, si è conclusa sul ponte Garibaldi, da dove si è gettata tre giorni dopo.