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Falsi miti e credenze sugli uomini violenti: quali sono, come riconoscerli e cosa fare per cambiare

Pubblicato: 17/02/2022 07:31

Articolo a cura della D.ssa Federica Palumbo – Psicologa della Rete dei CAV SanFra

Se qualcuno ci chiedesse di descrivere un ragioniere probabilmente sceglieremmo, tra le infinite possibilità fornite dagli aggettivi della nostra lingua, alcuni sintetici elementi considerati, dai e dalle più, come caratteristici di quella professione, di quel ruolo, di quella identità: una sorta di scelta dei minimi comuni denominatori insomma, una scorciatoia cognitiva che, si sa, facilita la comunicazione ed ottimizza i tempi dell’interazione, sempre così frenetici e sfuggenti!

È probabile, dunque, che ogni descrizione risenta di un meccanismo mutilante che, lungi dall’agire platealmente, sabota le infinite sfaccettature che ogni individuo racchiude in sé riducendo una complessità che diviene tanto faticoso considerare quanto, però, necessario rammentare.

In sintesi, accade molto spesso che una forma di pigrizia pervada le nostre osservazioni, le valutazioni, le narrazioni che costruiamo su noi stessi, noi stesse, sugli altri, sulle altre, sul mondo. 
E no, non ne siamo totalmente consapevoli, talvolta per niente.

Prototipi di violenza: quali i falsi miti degli uomini violenti

La costruzione e la condivisione di descrizioni prototipiche è un processo talmente diffuso da invadere ogni ambito, ogni argomento, ogni configurazione di realtà: ciò su cui ci soffermeremo in questo articolo prende in considerazione la rappresentazione sociale dell’uomo che agisce violenza contro una donna soffermandoci sugli aggettivi e sulle caratteristiche spesso associatevi non solo dalle opinioni del senso comune, ma anche da larghe frange di addetti e addette ai lavori e da chi, a vario titolo, produce discorsi pubblici su questi temi.

Per muoverci all’interno di una sintetica (e certamente non esaustiva) lista di queste caratteristiche prenderemo in prestito le narrazioni prodotte da quegli interlocutori e quelle interlocutrici con cui si è lavorato e disquisito, per motivi e scopi differenti, sulla percezione e sulla rappresentazione del fenomeno della violenza maschile contro le donne.

L’uomo è per natura aggressivo

L’uomo è per natura aggressivo: i tentativi di giustificare colui che agisce violenza partono da qui, quasi sempre. Ciò che possiamo ragionevolmente immaginare è che la tendenza ad inserire l’evento entro categorie scibili (come la presenza di una presunta e mai accertata dose d’aggressività in eccesso nel genere maschile) risponda al bisogno di sgretolare la gravità degli atti subiti da parte delle vittime; atti che, se significati alla stregua di scelte razionali, ponderate e conformi ad uno specifico modo di intendere i rapporti di potere tra i generi, si tingerebbero di una verità probabilmente intollerabile. Tanto più inammissibile quanto più vicino, conosciuto ed amato sarà colui che quegli atti li ha scelti, eseguiti, reiterati.

Ma la supposizione secondo cui esisterebbero differenze di genere relative all’aggressività è davvero fondata? Numerosi studi ci dicono di no. 

Nel 1994 Lightdale e Prentice pubblicano i risultati di una ricerca illuminante: le differenze nel comportamento aggressivo tendono a scomparire se vengono rimosse le norme di genere che vogliono le donne sensibili e gentili e gli uomini forti e decisi.

I dati scientifici non sostengono quelle credenze, ancora diffuse, sulla diversità psicologica tra uomini e donne ma la stessa psicologia sociale sottolinea il ruolo primario e decisivo che le norme sociali, culturalmente e storicamente situate, hanno nella regolazione del comportamento individuale e collettivo. In sintesi, lungi dall’aver connotazione di scientificità, la teoria che vorrebbe l’uomo naturalmente più aggressivo della donna agisce come una narrazione obsoleta e fuorviante, una profezia che si autoavvera, un alibi di paglia.

L’uomo aggressivo è ignorante e povero

L’uomo violento è un soggetto economicamente e culturalmente svantaggiato, privo di competenze sociali: se esiste una verità assoluta sul fenomeno della violenza maschile contro le donne, questa risiede nella sua trasversalità, nella sua diffusione in tutte le fasce socio-anagrafiche della popolazione.

Il lavoro svolto nei Centri Antiviolenza è la sentinella più idonea a rilevare questo dato: le donne che vi accedono raccontano di aver subìto violenze da uomini che non sono mai classificabili entro un’unica categoria, chi agisce violenza può aver conseguito due lauree, indossare una divisa o lavorare di vanga. Nemmeno la contemplazione di altri parametri, come l’età e/o l’ammontare del conto in banca, definisce l’identità prototipica del maltrattante: egli può aver appena compiuto 15 anni quando impone alla fidanzatina di indossare abiti ‘larghi’, può godere da tempo di una lauta rendita vitalizia quando impedisce alla moglie di uscire di casa, può versare in condizioni economiche definite precarie quando sequestra la propria compagna legandole i polsi ad un vecchio calorifero per giornate intere, può essere un imprenditore od un medico di successo quando abusa del corpo della partner senza il suo consenso.

L’aggressore ha avuto problemi familiari

L’uomo violento ha avuto un’infanzia difficile ed ha subìto una cattiva educazione: che i modelli ‘educativi’ incontrati nella vita abbiano un ruolo nel facilitare l’adozione di specifici pattern comportamentali è una tesi che non escludiamo ma che sottoponiamo a continue analisi per specificarne i processi, ponderarne la portata, relativizzarne l’influenza. In un’ottica che si definisce costruzionista e che intende l’essere umano come un agente consapevole, guidato da intenzioni e orientato al raggiungimento di specifici scopi, non si può dare per scontato che le sue scelte comportamentali siano il mero prodotto acritico di qualche ‘anomalia’ negli insegnamenti ricevuti da chi lo ha allevato.

L’essere umano è in grado di esercitare la propria riflessione osservando la realtà da prospettive svincolate da quelle fornitegli, può emanciparsi da definizioni preconfezionate che impigriscono le sue facoltà intellettive, può contribuire a costruire e poi interagire con scenari inediti, frutto della propria autodeterminazione. Non un burattino nelle mani dell’educazione ricevuta dunque, ma un elaboratore di informazioni che può trattenere quelle funzionali al suo benessere e scartare quelle dalle infauste conseguenze.

Considerare l‘uomo che agisce violenza contro una donna come un secchio vuoto riempito dalle credenze e dalle direttive di cattive madri (chissà perché, poi, le narrazioni contemplano spesso solo la responsabilità di una genitrice e non di entrambi) equivale a deresponsabilizzarlo e ad ammettere, quindi, che i suoi comportamenti nascano da facoltà intellettive quanto meno gravemente orientate alla sottomissione ed alla prevaricazione della donna maltrattata. La cronaca e gli studi di settore ci informano, invece, che gli autori di violenza siano, nella quasi totalità dei casi, soggetti pienamente capaci di intendere e di volere. È proprio su quel che intendono e vogliono che, semmai, si deve discutere.
Abbandonando, dunque, la contemplazione del dito che la indica proviamo a guardare davvero la luna.

La tradizione machista

L’agito violento ha origine nella possibilità dell’agito violento: quello che sembra un tautologico gioco di parole racchiude in sé la sintesi di una vastissima letteratura sul tema riassumibile nella definizione di gender studies

Partendo dal presupposto che i costrutti di mascolinità e femminilità siano costruzioni storiche culturalmente e socialmente definite, sancite e perpetrate, ricordiamo che il termine genere condensa tutte le caratteristiche ed i comportamenti che le diverse culture ritengono appropriati per gli uomini e per le donne: parafrasando l’illuminante lavoro di Volpato, l’uomo che si considera l’incarnazione del canone, della norma e del prototipo dell’umano si autoconvince di non essere condizionato dalle norme sociali che regolano la sua appartenenza al genere maschile, non mette in discussione quel modello tradizionale di mascolinità che, oggi, non ha ancora esaurito la sua influenza nonostante l’emersione di nuovi modelli di mascolinità; nello specifico, egli risulta ancorato ad una definizione di se stesso che prende vita se e solo se si contrappone al femminile, se nutre il culto della forza e del potere, se asseconda invettive omofobe.

Nella cornice d’analisi fornita dagli gender studies le pratiche di dominio sulle donne rintracciate in tutte le civiltà ed in tutte le epoche storiche, hanno la funzione di rafforzare l’identità di uomini che associano ad una espressione esasperata della virilità le varie forme di sopraffazione e violenza contro le donne.

Configurandosi come una costruzione in itinere e mai compiuta, la mascolinizzazione del corpo e delle attitudini è un impegno perpetuo che inizia ben prima dell’infanzia, all’interno delle famiglie, e prosegue in tutte le forme di interazione che la vita presenta agli individui. Gli uomini imparano cosa possono dire e come possono dirlo, quali sentimenti ed emozioni provare e quali nascondere e censurare; più il tasso di conformismo allo stereotipo di genere aumenterà più il maschio sarà accettato all’interno del proprio gruppo, dai compagni di genere. Per sentirsi, così, un uomo vero.

L’uomo che, nel corso della sua esistenza, è stato esposto a modelli di mascolinità tradizionale ha avuto l’occasione di scegliere se aderirvi ciecamente o rinnegarli: ha fatto la sua scelta di essere pensante. Oggi, egli inciampa in modelli diversi, spesso agli antipodi rispetto a quello monolitico cui gran parte de suoi compagni di genere aderiscono; saranno le sue reazioni a questi incontri a parlare di lui e delle sue prospettive, egli è nella condizione di scegliere se continuare a perseguire modelli di mascolinità affezionati all’esercizio del potere e dell’egemonia sugli altri generi o dialogare con tutte le altre soggettività in una posizione di assoluta parità. La possibilità di scelta, dunque, lo rende pienamente responsabile delle sue azioni.

Ultimo Aggiornamento: 17/02/2022 08:44