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Storia di un’operatrice antiviolenza: come ho scelto una vita nuova guardando negli occhi la violenza

Pubblicato: 08/03/2022 07:57

Articolo e storia a cura di Giulia Saravini Lazzarotti

Era il settantesimo anniversario del voto alle donne. Quella sera al cinema proiettavano un film sul movimento suffragista nel Regno Unito: Suffragette, di Sarah Gavron. In una scena del film, Emily Wilding Davison, attivista inglese dei primi del ‘900, viene investita dal cavallo di re Giorgio V dopo aver pronunciato la frase “Never surrender, never give up the fight”.
Ricordo quella serata come l’inizio di una rivoluzione interiore.

Mi sentivo ricca di ammirazione per quelle donne che tanto avevano fatto per i nostri diritti, ma mi sentivo anche piena di rabbia. Non riuscivo a capire come da un lato ci fossero donne pronte a lottare e sacrificare tutto in nome di ciò in cui credevano e, dall’altro, donne che – ai miei occhi – subivano passivamente. 

Al termine di quella serata, era cresciuta in me la voglia di fare la mia parte. 

Avevo bisogno di spogliarmi di maschilismi e pregiudizi

In Italia, nel 2016, si parlava di un femminicidio ogni tre giorni; uno scenario angosciante che non accennava a migliorare. Un’amica attivista mi raccontò del centro antiviolenza D.U.N.A di Massa-Carrara, in particolare di un corso per operatrici che stava per iniziare.
Fu così che decisi di propormi.

C’era chi non capiva perché avessi scelto di fare volontariato proprio in quel settore, ma sentivo che quell’esperienza avrebbe fatto parte di me molto a lungo.
Volevo capire meglio le dinamiche che si innescano all’interno di un rapporto violento, ma per farlo avevo bisogno di spogliarmi dei miei stessi maschilismi e pregiudizi.

Pensavo che determinate situazioni fossero in un certo senso imputabili alle donne stesse, e la rabbia che sentivo era quella che avrei voluto gridare in faccia a ciascuna di loro “Perché non ti ribelli? Come sei finita con questo? Perché gli hai permesso tutto ciò?”.
Ancora non mi rendevo conto di quanto io stessa giudicassi e colpevolizzassi le donne. Facevo parte di quella società che punta il dito contro di loro e le rivittimizza, spesso per il solo fatto di esistere e fare delle scelte.

Da quelle mancate consapevolezze iniziò il mio cambiamento.

Linguaggio di genere, il primo passo per guardare la vita in modo nuovo

“Intraprendere questo percorso sarà come indossare un paio di occhiali nuovi, vedrete la vita con un filtro totalmente diverso, e non potrete più tornare indietro”. Così ci disse quella che oggi posso definire una cara amica, nel presentare il corso per operatrici antiviolenza.

Ricordo con indulgenza e un filo di imbarazzo la mia domanda al termine della prima lezione: “Ma perché dobbiamo soffermarci sul linguaggio di genere, con tutto quello che succede alle donne ogni giorno?” Sì, pure benaltrista.
Spoiler: tre anni dopo ho incentrato una delle mie tesi di laurea proprio sul linguaggio di genere e su come anche il più “piccolo” tassello contribuisca a scardinare secoli di maschilismi tossici.
Ho iniziato quel percorso nel 2016 con un bagaglio di stereotipi che avevo interiorizzato nel corso della vita, e li sentivo via via sgretolarsi mentre ascoltavo e mi confrontavo con le donne del centro. Non è stato facile accettare un cambiamento tanto radicale; durante il corso ascolti, ma quelle ore non sono tutto, ci pensi durante la giornata e racconti quello che impari a chiunque. Ti rendi conto di essere insopportabile agli occhi degli altri, perché magari non sei più disposta ad accettare ciò che prima ritenevi solo una stupida battuta. Arrivi persino a scandagliare episodi della tua vita che prima ritenevi “normali” per poi capire di essere stata vittima di sessismo, qualche volta pure autoinflitto, e di aver subito subdole forme di violenza che prima stentavi a riconoscere.

Tutto ciò che avevo saputo fino ad allora, veniva letteralmente sovvertito. 

Le settimane passavano e la mia vista si faceva più nitida, ed è proprio vero che non si finisce mai di imparare quando ci si occupa di questioni di genere.
Di quei primi periodi ricordo quanto fosse stimolante mettersi in discussione e contribuire a far riflettere le persone che avevo intorno. Grazie a quelle discussioni, ad esempio, ho visto il mio compagno interrogarsi come uomo, e rendersi conto di quanto il sessismo invalidasse anche la vita degli uomini stessi.

Identikit dell’uomo violento, della donna vittima e altri stereotipi

Terminata la parte teorica, iniziò la parte pratica del corso, le simulazioni di colloqui con donne vittime di violenza e poi il vero e proprio lavoro sul campo.
Ricordo ancora una delle prime volte, pensavo solo a non far trasparire nulla di ciò che provavo per non mettere a disagio la donna che avevo davanti. A fine colloquio mi chiusi in macchina, respirai e lasciai andare tutto quello che avevo provato. I primi incontri non sono mai semplici, ma sei felice di ciò che stai facendo e senti di essere nel posto giusto.

Ascoltare le donne e sentire il loro dolore mi ha fatto capire che no, non esiste una vittima designata alla violenza, così come non possiamo tracciare l’identikit perfetto dell’uomo violento. La violenza di genere è trasversale, e può colpire ciascuna di noi, ma abbiamo uno strumento che può essere fondamentale nel riconoscerla e contrastarla: la consapevolezza.
In questo senso molti media non aiutano, proponendo troppo spesso immagini di volti tumefatti e donne indifese. Quando una donna decide di rivolgersi ad un cav (centro antiviolenza), spesso al primo colloquio dichiara: “Non so se sono nel posto giusto”.
Si fatica nel riconoscere la violenza, soprattutto quando non si tratta di quella fisica; si parla troppo poco di violenza psicologica, che maschera la gelosia da passione, trasforma il controllo in amore, e veste da cura il possesso. La mia crescita personale mi aveva permesso di capire che trattare la violenza di genere come un fatto emergenziale non aiuta a eradicare il problema, che risiede in una società patriarcale.
Educare all’identificazione dei vari tipi di violenze può essere la chiave per arrivare alla maggior parte delle donne, e consentire una presa di coscienza collettiva ancor prima che individuale.

Attivismo nei centri antiviolenza

La mia formazione come operatrice mi fa notare una spaccatura tra chi si ferma all’attivismo online e chi lavora “dietro le quinte”, come nel caso delle donne che operano nei cav. Chi fa attivismo spesso si basa su studi ed esperienze vissute o raccontate; trovo sacrosanto fare divulgazione in questo senso, però capita di leggere frasi motivazionali buttate un po’ troppo alla leggera da chi non ha visto con i propri occhi certe realtà. È ammirevole invitare le donne ad aprire gli occhi, denunciare e allontanarsi da situazioni tossiche. La realtà però si scontra con la burocrazia, con leggi inadeguate o inefficaci, con uomini in divisa che spesso ti vestono da carnefice o da pazza, mentre vorresti solo denunciare chi ti fa del male. 

Accettazione e sospensione del giudizio, la strada giusta

Durante questo percorso ho conosciuto una nuova me e ho imparato due cose fondamentali: l’accettazione e la sospensione del giudizio.
Parto dalla seconda, poiché tutti siamo abituati ad esprimere il nostro parere su ogni situazione, nonostante il confine tra opinione e giudizio sia traballante.
Quando una donna che ha vissuto violenze si siede davanti a te, il tuo giudizio sulla sua situazione deve restare fuori da quella stanza. 

Sono abituate a essere giudicate da chiunque, molto spesso non credute, l’unica cosa di cui hanno bisogno è qualcuno di cui fidarsi che le aiuti ad autodeterminarsi.

Qui arriviamo al secondo punto, l’accettazione.
Essere operatrice antiviolenza può risultare frustrante perché non sempre le donne sono pronte a intraprendere quel percorso e a farsi accompagnare, sia che si tratti di un colloquio che dell’entrata in protezione in una casa rifugio. Queste donne sbaglieranno, diranno frasi sessiste intrise di stereotipi, si ribelleranno, e forse non si allontaneranno dal maltrattante, ma noi operatrici in alcun modo possiamo spingerle a fare ciò che non sono pronte a fare. Vedere una donna che dopo mesi torna col maltrattante o trova un uomo simile al precedente, ricalcando lo stesso pattern di violenza, può essere triste e deludente, ma va accettato. È sempre la donna che decide, è sua l’ultima parola, noi operatrici siamo solo uno strumento. Per una donna che torna indietro nel percorso perché semplicemente non è pronta, ce ne saranno altre che riusciranno ad andare avanti e liberarsi dalla violenza. E non ci sono donne migliori di altre per questo, ci sono solo donne in diversi punti del loro cammino. 

I centri antiviolenza

Noi operatrici seminiamo, ma non è detto che quel seme attecchisca solo quando una donna conclude positivamente il suo percorso, può anche essere che quella parola detta l’aiuti a sentirsi meno sola in un momento buio. O forse ricorderà di quella volta in cui è stata accolta, e saprà che esistono donne pronte a sostenerla dalle quali potrà sempre tornare.

È essenziale raccontare le storie dei cav, di chi li abita e di chi li porta avanti.
Io sono solo una persona che fa parte di una storia molto più grande, fatta di donne che si confrontano costantemente e fronteggiano situazioni difficili e stressanti, che si interrogano su quanto il loro lavoro possa fare la differenza nella vita delle altre donne. All’interno del cav ho visto sconforto, rabbia per dinamiche che sono sempre le stesse, ma anche tanta dedizione, lotta, bellezza, risate, gratitudine, aperitivi salvifici, e soprattutto sorellanza.
Tutto questo l’ho visto e lo vedo nelle mie colleghe, che dedicano la vita a questa causa.
Far parte di un cav è prima di tutto imparare l’arte del confronto e del crescere insieme, capire il valore e la forza della sorellanza, in un sistema che spesso ci vuole l’una contro l’altra. 

Quel “Never surrender, never give up the fight” mi ha resa la donna che sono oggi.