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Fed corre come nel 2000, a Bruxelles continua la “saga” sulle sanzioni alla Russia: il punto sui mercati

Pubblicato: 06/05/2022 11:24

Il grande aumento è arrivato. Come previsto dagli addetti ai lavori, la Federal Reserve ha alzato i tassi d’interesse come 22 ani fa per combattere un’inflazione che ormai ha raggiunto i livelli del 1981. Con un’economia in contrazione (-1,4% nel primo trimestre), la Fed si trova nel difficile compito di dover riportare i prezzi sotto controllo (target 2%) senza causare una recessione economica. Un contesto che agli addetti ai lavori ricorda gli inizi degli anni ’80, quando il governatore Paul Volcker ha portato, di sua sponte, l’economia Usa in recessione per contrastare un’inflazione al 13,5%, costando a Jimmy Carter il secondo mandato e a Ronald Reagan la vittoria alle elezioni di midterm.

Intanto, in Europa continua la saga sulle sanzioni contro la Russia dopo la Commissione Ue ha proposto l’embargo totale su greggio e prodotti raffinati in arrivo da Mosca all’interno del sesto round di sanzioni, causando un nuovo rialzo dei prezzi delle materie prime. Diversi Paesi, tuttavia, non sembrano convinti del piano di Bruxelles vista la loro dipendenza strutturale dagli oleodotti russi, e potrebbero porre il loro veto in sede di voto o, nel migliore dei casi, chiedere un’esenzione prolungata dall’embargo e permettere l’approvazione del nuovo pacchetto di sanzioni.

La Fed corre sui tassi

Era dal 2000 che la Fed non alzava i tassi dello 0,5%, cioè dai tempi che hanno preceduto la grande bolla delle “dot com” a Wall Street. Ventidue anni dopo, cambia il contesto ma non la risposta. La banca centrale guidata da Jerome Powell ha deciso di mettere un freno all’inflazione (+8,5% su base annua) alzando i tassi di 50 punti base e annunciando aumenti simili anche nelle prossime due riunioni. Oltre al costo del denaro, la banca centrale Usa ha messo mano anche al suo maxi-bilancio che, dopo gli straordinari aiuti messi in campo durante il biennio Covid, ha raggiunto i 9 trilioni di dollari, circa un terzo del Pil statunitense.

Più marcatamente rispetto alle riunioni precedenti, la banca centrale ha messo l’accento sui rischi connessi ad un continuo aumento dell’inflazione, giustificando ulteriori inteventi sui tassi della stessa entità. L’inflazione “rimane elevata”, si legge nello statement della banca, con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che sta creando “un’ulteriore pressione al rialzo sull’inflazione” che rischia “di pesare sull’attività economica”. Inoltre, è probabile che i lockdown in Cina “aggraveranno le interruzioni della catena di approvvigionamento”, motivo per il quale la Fed “è molto attenta ai rischi inflazionistici”.

I mercati, inizialmente, hanno reagito con euforia alle misure della banca Usa, più leggere rispetto alle attese degli operatori di un aumento dello 0,75%. Aumento che, come precisato da Powell in conferenza stampa, non è sul tavolo del Fomc (commissione esecutiva della Fed). L’euforia post-Fed che si è poi bruscamente spenta, facendo capitolare i principali indici statunitensi, con il Nasdaq che ha perso più del 4% cancellando i guadagni della seduta precedente.

La Fed continuerà con aumenti di 50 bp nei suoi prossimi due incontri politici, prima che una crescita economica reale poco brillante e una moderazione dell’inflazione la convincano a tornare a rialzi di 25 punti base negli ultimi tre incontri politici di quest’anno ; portando l’obiettivo dei fondi federali tra il 2,50% e il 2,75% entro la fine dell’anno”, ha affermato Paul Ashworth, Chief Us Economist di Capital Economics.

Freni tirati sull’embargo russo

La presidente della Commissione Ue Von der Leyen ha annunciato al Parlamento europeo la proposta di embargo sul greggio e derivati provenienti da Mosca contenuto all’interno del sesto round di sanzioni. “Elimineremo gradualmente la fornitura russa di petrolio entro sei mesi e di prodotti raffinati entro la fine dell’anno“, ha detto von der Leyen. La proposta, però, dev’essere approvata da tutti i 27 membri dell’Ue, e qui iniziano i problemi visto che già dopo lo stop russo sul gas a Polonia e Bulgaria si sono ingigantite le crepe con i Paesi legati ai beni energetici russi.

Slovacchia e Ungheria, e più tacitamente la Germania, hanno già fatto sapere di non essere disposte a votare l’embargo per paure delle ricadute sulle rispettive economie, e di volere chiedere l’esenzione sull’embargo. Il ministero dell’Economia slovacco ha infatti detto a Reuters che “se si tratta di un embargo approvato sul greggio russo, all’interno di un ulteriore pacchetto di sanzioni contro la Russia, allora la Slovacchia chiederà un’esenzione“. Per tenere unito il blocco e portare a casa il voto sul round di sanzioni, Bruxelles sarebbe disposta a concedere l’esenzione dall’embargo a Lubiana e Budapest fino al 2023, ma il portavoce del governo di Budapest Zoltan Kovacs ha ribadito all’agenzia di stampa che la posizione ungherese “su qualsiasi embargo di greggio e gas non è cambiata: non siamo a favore“.

La provenienza del greggio

Oltre alle ferme posizioni del blocco ex-sovietico, un totale embargo sui prodotti raffinati moscoviti non sarebbe così facile da attuare. Secondo un’analisi pubblicata da Reuters, i Paesi europei potrebbero continuare a comprare carichi russi da Paesi terzi senza essere a conoscenza della loro provenienza, in quanto è difficile risalire all’origine del composto se il greggio viene miscelato con altri greggi per le raffinerie, e “quasi impossibile” dopo che viene trasformato in prodotti standard, come benzina, diesel o carburante per aerei.

Il problema è inoltre logistico. I barili russi arrivano in Europa tramite il complesso Amsterdam-Rotterdam-Anversa (Ara) – composto da otto porti sparsi in due Paesi, 96 terminali e 6.300 serbatoi di stoccaggio di proprietà di centinaia di compagnie petrolifere internazionali – e successivamente viene diretto verso i terminali degli altri Paesi Ue. Con tutti questi passaggi, “è difficile per il terminale di stoccaggio identificare l’origine dei prodotti“, ha detto a Reuters Krien van Beek, broker di Odin-Rvb Tank Storage Solutions a Rotterdam.

Per Cuneyt Kazokoglu, responsabile dell’analisi della domanda di petrolio alla Fge, i raffinati russi potrebbero comparire nei dati delle dogane “semplicemente come carburante proveniente dai Paesi Bassi”, e secondo l’esperto “molti Paesi europei indicheranno che le importazioni provengono dai Paesi Bassi per nascondere l’origine dei prodotti russi”, ha detto a Reuters.

Ultimo Aggiornamento: 06/05/2022 19:19