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La mascolinità miete molte vittime: non solo femmine, ma in modo diverso anche i maschi ne restano incastrati

Pubblicato: 12/05/2022 07:31

Articolo a cura della D.ssa Federica Palumbo, psicologa della Rete dei CAV SanFra

Se volessimo classificare le vite degli altri e, s’intende, anche la nostra, probabilmente inizieremmo ad ipotizzare, e ad usare, un ristretto gruppo di categorie utili a suddividere e raggruppare poi gli esseri umani in base alla loro etnia, alla religione, all’età, all’occupazione, al sesso. Tutto sommato, potremmo ritenerci soddisfatte e soddisfatti: il mondo sarebbe, così, molto più ordinato, disciplinato e, dunque, prevedibile. Sarà probabile, però, che ad un certo punto gli individui appartenenti (o, meglio, incastrati) ad una categoria inizino a manifestare atteggiamenti e comportamenti che mettono in discussione la loro appartenenza al gruppo cui sono stati affiliati; è possibile che noi cercheremmo di limare o trascurare tali ribellioni pur di non stravolgere la tranquillità categoriale. Ma si sa, talvolta la ribellione rompe i margini e inonda i nostri criteri di classificazione minandone la validità, la pertinenza, la resistenza.

I diritti maschili: al dominio, al potere e al controllo

Le vite sono, a guardarle da vicino, uniche ed irripetibili: per quanto ci affanniamo a raggrupparle esse sfuggono, sempre, ad ogni volontà di mutilazione della loro complessità. Questo è ciò che ci rende diversi dalle macchine e, probabilmente, rappresenta la nostra più grande virtù: in una sorta di gioco di parole, è la ricchezza della ricchezza. 

Detto questo, sorprenderà che io ribalti quanto appena esposto contraddicendo me stessa: se penso alle storie raccontate dalle donne accolte nei contri antiviolenza in cui lavoro, non posso che cogliere la presenza e la persistenza di un elemento che accomuna tali storie. Nel pensare a quelle narrazioni consento momentaneamente a me stessa l’esercizio di un errore: creo una categoria, un recinto in cui conduco le vite delle donne che ho incontrato o, meglio, quella parte delle loro vite che ha avuto a che fare con la violenza perpetrata dai loro partner

Dunque se esiste, come esiste, un elemento che rende possibile (e quasi necessario al fine di comprendere il fenomeno cui faccio riferimento in questo contributo) riassumere in un unico costrutto la polifonia delle vite di queste donne, quell’elemento è il diritto maschile al dominio, al potere ed al controllo. Un diritto non scritto, ça va sans dire, ma tenacemente ancorato alla rappresentazione stereotipata della mascolinità come la più testarda delle piante parassite. Ma se le piante parassite vivono sfruttandone un’altra da cui ‘rubano’ le sostanze nutritive necessarie alla sopravvivenza, perpetrando così un esplicito e tangibile processo in cui il vantaggio della vita simbiotica è a senso unico, in che direzione va il vantaggio promesso e millantato dall’esercizio del dominio, del potere e del controllo sulle altre persone? Chi ne trae davvero giovamento?

Definizione di mascolinità: cosa significa essere maschio

Una cosa è certa: le storie delle donne cui mi riferisco contengono, in un modo o nell’altro, l’esercizio del controllo agìto, ai loro danni, dai partner e la manifestazione della violenza di questi ultimi ogni volta che, da quel dominio, le donne abbiano cercato di svincolarsi e liberarsi in un legittimo slancio verso la propria autodeterminazione. L’esercizio della forza e del controllo sulla propria ed altrui vita è uno degli elementi che costituiscono tradizionalmente il costrutto sociale della mascolinità.

Consapevole che il tema pretenda una analisi complessa, per altro avanzata e sistematizzata da studiosi e studiose in opere preziose nell’ambito del dibattito sulle questioni e gli studi di genere, proveremo a condividere alcune riflessioni muovendoci dalla definizione di mascolinità che sintetizza egregiamente la linea di pensiero promossa in questo articolo: secondo il sociologo Michael Kimmel (2005), essa è “l’insieme di ruoli sociali, comportamenti e significati associati all’essere maschio in una data società e in un dato tempo”. 

Dunque, lungi dal costituire una facoltà innata nei corpi nati morfologicamente come maschi, la mascolinità esiste solo se riferita ad un contesto socioculturale cha la plasma, muta con il trascorrere del tempo ed assume forme diverse nelle varie culture, nonché lungo il cammino di vita di uno stesso individuo.

Comportamento umano come conseguenza del sesso biologico

Considerare la mascolinità come un monolite imperturbabile è errato: essa si produce e si riproduce all’interno delle interazioni tra esseri umani e sfugge all’adesione a caratteri universalmente validi; non è una costante dell’essere maschi e non rappresenta un tratto condiviso dalla ‘natura’ degli uomini di tutti i tempi e di tutte le culture.

Per comprendere meglio quanto appena affermato si dovrebbe “rinunciare a qualcosa di molto attraente per noi: spiegare il comportamento umano in base al primato del sesso biologico” (Pacilli, 2020) e provare a considerarlo, per certi versi, come una sorta di obbedienza acritica a ciò che il tempo e la cultura cui apparteniamo si aspetta da noi in quanto maschi, o in quanto femmine. E le storie in cui inciampo ogni giorno mi suggeriscono che, ancora oggi, agli uomini viene chiesto di essere forti, coraggiosi, tenaci, imperturbabili, prestanti, duri, finanche violenti. 

I dati della violenza contro le donne sono dati di una pandemia

Forse non siamo ancora vicini all’abiurare ai consigli galanti del poeta latino Ovidio che esortava il maschio ad usare l’aggressività e la violenza per sedurre e congiungersi carnalmente con una fanciulla poiché “vis grata puellae” (la violenza è gradita alla fanciulla). Parole che sembrano macigni in un’epoca storica in cui la violenza contro le donne assume le proporzioni di una vera e propria pandemia, come affermato dall’OMS.

Sin dall’antichità greco-romana, dunque, al maschio è stato suggerito e, in un certo senso, imposto l’esercizio della forza e del dominio sulle altre creature considerate inferiori (donne comprese naturalmente); come sostiene la filosofa Olivia Gazalè (2020) “il mondo gli appartiene: tocca a lui operare la conquista attraverso il suo comando, il suo spirito di decisione e il suo senso dell’ordine”.

Giunti sin qui, è lecito chiedersi se la mascolinità si configuri come un ruolo sociale, uno stereotipo o una ideologia (Addis e Hoffman, 2019): probabilmente possiamo non scartare nessuna delle tre ipotesi.

In una recente ricerca Andrighetto, Riva e Gabbiadini (2019) hanno rilevato che in una piattaforma online per incontrare nuovi partner costruita ad hoc per lo studio, gli uomini – ma non le donne – mostravano maggiore ostilità e rabbia nei confronti di coloro che li avevano rifiutati rivendicando la prerogativa all’esercizio delle facoltà decisionali. 

Anche gli uomini restano prigionieri e sono vittime di una cultura sbagliata

Chi trae davvero giovamento dalla stasi di una mascolinità così definita? Potremmo pensare che siano gli uomini a trarne vantaggio, del resto qualsiasi analisi dei privilegi e della rappresentatività pubblica del maschio in tutti gli ambiti della vita umana ci regalerebbe una mole infinita di aneddoti e di prove. Ma non è così: “(…) anche gi uomini restano prigionieri, e subdolamente vittime, della rappresentazione dominante. (…) Le disposizioni che portano a rivendicare e ad esercitare il dominio non sono inscritte in una natura e devono essere costruite attraverso un lungo lavoro di socializzazione, di differenziazione attiva in rapporto al sesso opposto. Lo status di uomo nel senso di vir implica un dover-essere che si impone sul registro del va-da-sé, senza discussione. (…) Il privilegio maschile è anche una trappola e ha la sua contropartita nella tensione e nello scontro permanenti, spinti a volte sino all’assurdo, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità”.
Dovremmo leggere più attentamente, tra tanti e tante altre, Pierre Bourdieu.