Maria Chindamo, una donna di carattere e determinazione, ha pagato con la vita la sua scelta di libertà e autonomia. Rapita e brutalmente uccisa sette anni fa, il suo corpo è stato dato in pasto ai maiali e infine distrutto con un trattore in un gesto barbaro di dominio e vendetta.
La colpa di Maria? Avere avuto il coraggio di ricostruirsi una vita dopo aver lasciato un marito suicida e di continuare a gestire terreni e aziende tra la Piana di Gioia Tauro e il Vibonese. Ma la sua storia, tragica e dolorosa, racconta una realtà ben più complessa.
Salvatore Ascone, un nome che emerge con prepotenza dall’indagine. Vicino di casa di Chindamo e affiliato al potente clan Mancuso, Ascone, con l’aiuto del figlio minorenne Rocco, ha sabotato il sistema di videosorveglianza di Maria, rendendo inutili le telecamere, partecipando poi alla devastazione del suo corpo.
L’odio verso Maria ha avuto origine quando ha postato foto con il suo nuovo compagno. Due giorni dopo, è stata uccisa brutalmente. La crudeltà non si è limitata al modo in cui è stata assassinata, ma si è manifestata anche nella successiva profanazione del suo corpo.
Era considerata una cosa di proprietà
Maria era vista come una proprietà dal clan mafioso legato alla famiglia del suo ex marito, Ferdinando Punturiero, il quale, incapace di accettare la fine della loro storia, si era tolto la vita. Maria, colpevole solo di voler essere indipendente e di non voler tornare a un passato doloroso, è stata giudicata e punita dalla ‘ndrangheta. Questi criminali non accettavano che una donna gestisse terreni che una volta appartenevano alla famiglia di Punturiero.
Il procuratore Nicola Gratteri sottolinea come, oltre al desiderio di controllo sui terreni di Maria, c’era una rabbia profonda verso di lei per aver osato rifarsi una vita. Gli interessi e le ambizioni della ‘ndrangheta su quei terreni hanno finito per siglare la condanna a morte di Maria.
Questo femminicidio svela l’intricato intreccio di gelosia, potere e tradizione mafiosa che ancora soffoca molte donne nel sud dell’Italia. Una storia che, purtroppo, non è un caso isolato ma un monito di quanto ancora ci sia da fare per garantire la sicurezza e l’autonomia delle donne.