L’Italia è un paese basato sugli anniversari. A dieci anni dalla morte… a cinquant’anni dalla nascita… trent’anni fa la strage… Talvolta ci si accanisce anche su date intermedie: 13 anni, 7, 29… Eppure, in questo 2023 che va declinando, almeno due anniversari non hanno suscitato grande interesse. Pur essendo due date fondamentali per la storia nazionale. Se il 25 luglio del 1943 – ottant’anni fa – non fosse imploso il regime fascista, probabilmente la nascita dell’Italia democratica e repubblicana sarebbe stata più difficile e complessa. E così si può dire dell’8 settembre dello stesso anno, quando fu reso noto l’armistizio di Cassibile trattato dal governo Badoglio, e dunque il cambio di fronte nella seconda guerra mondiale, seppur solo nella equivoca veste di nazione cobelligerante.
Quell’8 settembre che, nel suo De profundis, il giurista Salvatore Satta percepì come giorno della “morte della patria”. Un libro complesso, De profundis, che portava alla luce, nell’immediato dopoguerra, un atteggiamento “terzo” rispetto a quello degli italiani protagonisti – su fronti opposti – nella guerra civile che per quasi due anni insanguinò la nazione. “Terza” fu la posizione della stragrande maggioranza degli italiani, che, stanchi della guerra di Mussolini malamente perduta, guerra che non avevano voluto, si rifugiarono, non solo fisicamente, piuttosto psicologicamente, nella “casa in collina” di Cesare Pavese, stando a guardare senza prender parte.
Per pubblicare le sue amare riflessioni Salvatore Satta dovette accontentarsi di una piccola casa editrice. Einaudi rifiutò un testo ritenuto imbarazzante e non in linea con lo spirito resistenziale che animava la sua redazione. Rifiutò, d’altra parte, anche di pubblicare Se questo è un uomo di Primo Levi. Eppure della Shoah si aveva piena consapevolezza.
Ladri di biciclette: un ammonimento agli scrittori di una generazione
Per comprendere come sia potuto accadere bisogna calarsi nello spirito di quel tempo, come il giornalista e storico Gianni Scipione Rossi ha scelto di fare con il suo Ladri di biciclette. L’Italia occupata, la guerra civile 1943-1945, la memoria riluttante (Rubbettino, 2023, pp. 174, €15). Non c’è la guerra nelle sue pagine. La guerra, la tragedia della guerra, è il tapis roulant sul quale scorrono – grazie a uno scavo accurato nella pubblicistica dell’epoca – le pagine della memoria riluttante, della ambiguità che caratterizzò i testimoni e i protagonisti. A cominciare dagli intellettuali. Perché questo è, in fondo, l’obiettivo di Rossi: inchiodare alle sue responsabilità una generazione di scrittori, giornalisti, registi, sceneggiatori, con rare eccezioni. Non per dare un giudizio moralistico sui tanti che nel fascismo vissero senza mai ribellarsi. Piuttosto per evidenziare come una memoria distorta abbia pesato sulle generazioni successive. La mancanza di verità è per Rossi la causa della difficoltà con la quale l’Italia, da decenni, fatica a percepirsi come nazione.
D’altronde, in quel tempo, intellettuali di valore come Italo Calvino ed Elio Vittorini potevano augurarsi che nascesse una nuova cultura italiana, prendendo come riferimento quella della Unione Sovietica di Stalin. Calvino era molto giovane. Vittorini, nel 1942, esponente della sinistra fascista, aveva partecipato al raduno degli intellettuali europei convocato dal ministro della propaganda nazista Goebbels. Poi cercò di cancellare le tracce.
La memoria ambigua del dopoguerra: perché Bartolini si dissociò dall’elaborazione cinematografica
La scelta del titolo – Ladri di biciclette – non è casuale né strumentale. È assunto come simbolo. Come si sa è il titolo del capolavoro del neorealismo cinematografico, girato nel 1948 da Vittorio De Sica con la sceneggiatura di Cesare Zavattini. Fin dai titoli di testa è chiaro che il film è stato tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Luigi Bartolini, che ha ceduto i diritti per la riduzione cinematografica. Ma, come Rossi ricostruisce, Bartolini si dissocia immediatamente dal film. Protesta pubblicamente. Perché il furto della sua bicicletta avviene nel settembre del 1944, quando Roma liberata dal nazifascismo è contestualmente occupata dagli Alleati. Una Roma disperata, dove il borghese Bartolini, derubato, riesce a sconfiggere il ladro. Mentre nel film il furto avviene nel 1948, in una Roma ancora accattona che fa fatica a riprendersi, nella quale vittima del furto e ladro sono equiparati in uno scenario di povertà condivisa. Una visione tipica del neorealismo. Grande film, dunque, ma ambiguo, come in effetti è la memoria di quegli anni.
Il libro di Rossi si dipana attraverso capitoli settoriali, con la memoria riluttante come filo conduttore. Dalle negazioni dell’immediato dopoguerra fino ancora a vent’anni addietro e poco più, quando il De profundis di Satta, tornato alla luce, sarà considerato ancora largamente sconveniente, se non proprio scandaloso. È il lascito di una generazione che – secondo l’autore – ha avvelenato i pozzi della memoria.