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Golda, una donna che ha scritto la storia di Israele

Pubblicato: 02/02/2024 19:24

Scorrevo l’archivio storico del “Corriere della Sera”, così, per rinfrescarmi la memoria. Il 10 dicembre 1978 la pagina di esteri apre con questo titolo: . Quel giorno il premier israeliano Menachem Begin sarà ad Oslo, per ritirare il premio Nobel per la Pace, assegnatogli ex aequo con il presidente egiziano Anwar al-Sadat, assente. Dopo gli accordi di Camp David, nel settembre del 1978, ancora si discuteva e la pace sarà firmata nel 1979. Nel novembre 1977, primo leader arabo, Sadat era andato in Israele. A Tel Aviv volle stringere la mano a Golda Meir, che tre anni prima, nel giugno del 1974, aveva lasciato la guida del paese, sommersa dalle critiche politiche interne per non aver anticipato l’attacco arabo nella guerra del Kippur, peraltro vinta. Si narra che Sadat gli abbia detto: . Lei avrebbe risposto: . Sarcastica, commentando gli incontri tra Sadat e Begin avrebbe detto: . Quella pace era anche merito suo.

Ricoverata all’Hadassah Hospital di Gerusalemme, Golda Meir era morta all’alba dell’8 dicembre 1978. I colloqui di Camp David erano stati voluti e gestiti dal presidente americano Jimmy Carter, il democratico eletto nel 1977, succedendo al repubblicano Gerald Ford, a sua volta subentrato a Richard Nixon, che aveva raggiunto la pace con il Vietnam del Nord, ma fu travolto dallo scandalo Watergate. Carter – oggi quasi centenario – durò un solo mandato. Nel 1981 cominciò l’era di Ronald Reagan. L’ex governatore della Georgia fu sconfitto anche a causa della crisi iraniana. Il 13 dicembre 1978 il “Corriere della Sera” titolava: . Poco più di un mese dopo, il 16 gennaio del 1979, lo Scià Mohammad Reza Pahlavi fu costretto lasciare la sua Persia laica e modernizzatrice, vittima della rivoluzione islamica predicata e guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeyni. Carter dovette gestire l’occupazione dell’ambasciata statunitense di Teheran, il 4 novembre 1979. Gli ostaggi americani furono rilasciati il 28 gennaio 1980. Il “Grande Satana” di Khomeyni era stato messo alle corde.

L’Italia, in quel 1978, era provata dal sequestro e dall’assassinio del leader democristiano Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il Moro ministro degli Esteri che prosegue – sulla questione mediorientale – la politica filo araba inaugurata da Amintore Fanfani. Da questa politica – mentre Gheddafi espelle ventimila italiani dalla Libia e Arafat guida l’Olp – deriva il patto non scritto con i palestinesi, liberi di agire nel nostro paese, anche con attacchi terroristici. Dalla sua prigione brigatista, in data 29 aprile, Moro scrive Flaminio Piccoli: . Il “lodo Moro”, dunque, applicabile anche al suo caso. Stefano Giovannone era l’agente segreto italiano che dal Libano gestiva i rapporti con il mondo arabo e con l’Olp. Quando i terroristi palestinesi agivano in Italia, con le stragi di Fiumicino, nel 1973 – un anno dopo la strage di Monaco -, e nel 1985. Tre anni prima c’era stato l’attentato alla Sinagoga di Roma, con la morte del piccolo Stefano Tachè Gaj.

Nell’ottobre del 1970, a New York, Moro incontra Golda Meir. Non andò bene. D’altra parte non andò benissimo neppure quello del 1973 con Paolo VI. Alla proposta di Moro di far rientrare i palestinesi esuli nei territori lasciati nel 1948, Golda rispose: .

Sono trascorsi quasi 54 anni da quel colloquio. La politica italiana, col tempo, nei confronti di Israele e del terrorismo, è cambiata, pur nella complessità della situazione mediorientale. Che, tuttavia, continua a presentarsi critica per lo Stato israeliano. Ancora di stragi dobbiamo parlare. La data del 7 ottobre 2023 è destinata a rimanere nella storia, mentre è ancora incerto come la guerra scatenata da Hamas possa trovare una via d’uscita. Hamas, Iran. Ribelli Houhthi yemeniti, Iran. L’Iran del fanatismo sciita. L’Iran delle donne che non possono sciogliere i capelli, né indossare le minigonne come prima di Khomeini. L’Iran del petrolio, che resta il cuore dei problemi di quell’area geopolitica. In mezzo c’è Israele, con la sua democrazia litigiosa, la sua laicità, la sua volontà di non mollare mai, le sue frange estremiste messianiche. Israele, insomma.

Israele con la sua storia complicata, che è la trama e l’ordito dell’affascinante biografia che Elisabetta Fiorito ha dedicato a Golda Meir, la leonessa. Biografia di una donna, certo, ma che s’intreccia con la vita del popolo ebraico e della sua capacità di rivendicare il diritto di esistere come Stato indipendente e sovrano, fin dalla sua nascita, e ancora messo in discussione. Biografia di una donna, dunque, e insieme biografia di uno Stato.

Golda Meir, quindi. Ormai ottantenne e lontana – fino a un certo punto – dalla politica, al suo funerale piansero, in fila, in 150mila. Golda Meir, con i suoi pregi e i suoi difetti, con i suoi successi e i suoi errori, con il suo femminismo, il suo tabagismo, con la sua vita sregolata, con le sue calze contenitive, con la sua testardaggine e il suo sarcasmo, con la sua durezza, con il suo essere donna in un’epoca di misoginia diffusa, anche nel mondo ebraico. La Golda Mabovitch nata ebrea ucraina di Kiev nel 1898, ai tempi dei pogrom nell’impero russo, dove la vita è dura. Dove – ricorda Fiorito – , e per questo sempre .

L’America è il difficile approdo, prima del padre e poi della famiglia. Ma nel frattempo, il movimento sionista predicato da Theodor Herzl comincia ad attecchire, pur dovendosi confrontare con la diffusa integrazione, negli Stati Uniti, e non solo. In Italia attecchì pochissimo.

Ma Golda è sionista. E il sionismo è socialista, almeno fino all’emergere – negli anni Trenta – del revisionismo di Vladimir Žabotinskij. Golda fa la sua scelta, nel 1921, convincendo il marito, contro le perplessità dei genitori, sbarcando nella Palestina ex ottomana e mandataria britannica, dove la prospettiva del focolare ebraico si rafforza con la dichiarazione di Arthur James Balfour del 1917. Vive in un kibbutz, che dovrà lasciare dopo un paio d’anni, . Le resterà, sempre, la nostalgia per uno stile di vita frugale. Anche da ministro e da premier le piacerà ricevere in cucina i suoi ospiti.

Nonostante abbia una famiglia, due figli, sarà una girovoga politica della causa, impegnandosi – quando le persecuzioni naziste si faranno disastrose – per accogliere gli ebrei europei in fuga, battendosi contro le resistenze britanniche, mentre in Gran Mufti di Gerusalemme si allea con Hitler. La guerra finisce. La Shoah si è manifestata. Nel novembre 1947, con l’assenso di Stalin, l’Onu vota a favore della nascita dello Stato di Israele. Presto l’Unione Sovietica cambierà posizione, sostenendo i paesi arabi. Ma lo Stato è nato, il 14 maggio 1948, al termine del mandato britannico. Nella dichiarazione costitutiva, con quella di Ben Gurion, ci sarà anche la sua firma. È lei che, in un lungo peregrinare negli Stati Uniti, riuscirà a ottenere dalle comunità della diaspora i finanziamenti indispensabile al nuovo Stato. Ma non sarà tra i ministri del primo governo. Amareggiata, scriverà un appunto che sarà trovato solo molto anni dopo, in un cassetto, da Shimon Peres: .

Ma la politica è la sua vita. Sarà ambasciatrice a Mosca nel 1948, deputata alla Knesset, ministro del Lavoro (1949-1956) e degli Esteri (1956-1966), presidente del partito laburista e contestualmente primo ministro (1969-1974). E da premier dovrà affrontare il massacro di Monaco e la guerra del Kippur. Una vita intera, che Elisabetta Fiorito ricostruisce con la sua maestria di giornalista radiofonica, dipanando la narrazione, con una prosa asciutta e coinvolgente, sul doppio binario pubblico-privato. Ne emerge la complessità della storia israeliana e il carattere di una donna che quella storia ha contribuito a scrivere, con tenacia, intuito, forza. Senza paura, anche nei momenti più difficili. Il libro, frutto di una grande lavoro di documentazione, esce in un momento drammatico per Israele. Dunque in un momento più che opportuno per chi – senza pregiudizi – volesse veramente capire le radici dell’oggi.

Ultimo Aggiornamento: 02/02/2024 19:26