di Diletta Riccelli
In fila fuori da quella porticina oscurata ci sono occhi sgranati, occhi rossi freschi di pianto, occhi attenti di chi cerca di capire cosa stia succedendo attorno, occhi dal quale traspare la disperazione. Siamo fuori la porta d’ingresso del consultorio di un ospedale romano. In attesa ragazze giovanissime e alcune meno giovani che attendono il loro turno per chiedere informazioni circa l’interruzione di gravidanza. C’è un silenzio quasi tombale, tutte si guardano l’un l’altra senza fiatare. Sanno benissimo che sono là per il medesimo motivo ma non osano proferire parola. Varcheranno la soglia di quella porta, avvolte da dubbi e speranze, probabilmente desiderose di trovarsi in un luogo accogliente e dopo possano affrontare questa dolorosa decisione, nel modo più sereno possibile.
In fila non ci sono solamente donne romane ma anche donne venute da altre regioni. L’ultima relazione del ministero della Salute al parlamento, sull’applicazione della legge 194, risalente al 2022 e contenente i dati del 2021, pone l’accento su una situazione gravissima. Dai dati ministeriali emerge che in regioni come l’Abruzzo, quasi 9 medici su 10 sono obiettori, una percentuale simile a quella della Sicilia. In Campania, Puglia e Basilicata, la situazione è migliore ma comunque preoccupante, con quasi 8 medici su 10 che si dichiarano obiettori di coscienza.
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Dal 1982 a oggi, il numero degli aborti è calato drasticamente, complice il numero sempre più cospicuo dei corsi di educazione sessuale nelle scuole e la crescente informazione in materia. Ma le poche donne che optano per l’interruzione di gravidanza, incontrano ancora moltissimi ostacoli. Ostacoli legati alla gestione della pratica, al poter godere di questo servizio in totale anonimato e possibilmente vicino alla propria abitazione. Così da evitare il costo del viaggio spesso considerevole.
In Sicilia ad esempio, l’85 per cento dei ginecologi, segnala il ministero, è obiettore. Ma in 26 strutture dell’isola si raggiunge il 100 per cento, così evidenzia il rapporto di Medici del Mondo, “Aborto farmacologico in Italia”. Da questo studio emerge poi che a Catania l’ivg farmacologica non è disponibile in alcun ospedale, mentre a Messina solo in una struttura nell’intera provincia. Ma non bastano queste percentuali da brivido. Ora il governo Meloni vuole metterci su il carico con un emendamento al decreto sul Pnrr. che stabilisce che nei consultori debbano essere presenti associazioni “che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”. In gergo delle figure antiabortiste.
Allora immaginate le ragazze impaurite lasciate là, sulla soglia di quella porta, oltre la quale bisogna spesso fare i conti con sé stesse, sottoposte al giudizio di chi, attraverso pratiche subdole, propone di sentire il battito prima di optare per l’ivg. Insomma, una barbaria della quale, probabilmente, non ne avevamo bisogno. La legge 194 del 1978, che regola l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in Italia, non garantisce pienamente questo diritto a tutte le donne. Almeno il 20% delle donne sono costrette a spostarsi in un’altra provincia o regione per trovare personale medico non obiettore.
Diversi movimenti a tutela delle legge 194 chiedono una revisione della legge. È chiaro che le falle attuali possano essere sfruttate dalle forze politiche di destra per limitare ulteriormente l’accesso a questo servizio. Inoltre, l’autonomia differenziata potrebbe aggravare il divario regionale, creando ulteriori disuguaglianze . Un esempio lampante è nelle Marche dove l’aborto è praticato fino alla settima settimana (in Italia è possibile fino alla nona e le linee guida internazionali lo prevedono fino alla dodicesima), solo nel 20,7 per cento dei casi, a fronte di una media nazionale del 47,3. Insomma, in Italia è ancora troppo difficoltoso abortire e le figure che il governo Meloni tiene tanto a inserire nell’organico dei consultori, potrebbe rendere tutto ancor più ostico.