Mentre si dipana il sapiente intreccio che Giulio Perrone ordisce nel romanzo Tante Parole e poi l’amore, chi legge non può non chiedersi se, dopo tanto parlare appunto, alla fine l’amore arriverà davvero. Per tutto il libro infatti l’autore accompagna il lettore nel terreno scosceso dei legami affettivi, gli mostra come sia facile scivolare, quante e quali siano le trappole del dover essere che condannano i personaggi a condurre delle vite in bilico. Non c’è spazio, nelle vicende narrate, per l’autenticità dei sentimenti: ciascuno indossa una maschera che lo allontana dai suoi reali desideri in quella che si delinea sempre più chiaramente come una vera e propria “alienazione” collettiva, a voltre struggente, proprio nel suo essere senza scampo.
Il falso sé: connessi eppure estranei
Giulio Perrone scava nella psicologia dei personaggi, ne mostra i lati oscuri, l’insidia dell’apparenza e, nel fare ciò, svela le contraddizioni più profonde dell’animo umano. Così, una piccola rete di uomini e donne, tutti connessi tra di loro seppure estranei l’uno all’altro, vivono di un falso sé, spesso si nutrono di illusioni e percepiscono una porzione di realtà angusta, immersi come sono nei giochi di potere caratteristici delle relazioni asimmetriche in cui, proprio come suggerisce la metafora del mismatch, si può occupare una posizione di forza o di debolezza rispetto all’altro.
Genitori narcisi, sfuggenti e abbandonici; donne alla continua ricerca di approvazione, uomini all’apparenza strutturati nella carriera e negli affetti che, attanagliati di fatto in una insoddisfazione profonda, inseguono costantemente un altrove. Amori impossibili, e forse proprio per questo indissolubili, talvolta nelle mani di un destino che ne tesse gli sviluppi, oltre la volontà stessa di chi li vive. Ma alla fine, dopo tante parole che danno rirmo a un ballo vorticoso di maschere, l’amore arriva davvero, proprio dove non te lo aspetti: si schiude in tutta la sua bellezza poetica in una relazione alla pari, l’unica forse di tutto il romanzo, in cui nessuno usa nessuno ma ci si prende cura l’uno dell’altro. L’unico vero amore possibile di fatto è un non amore, nel suo essere autentico, scevro dal desiderio di possesso, in cui si può liberamente affidare il proprio animo all’altro senza timore di venirne feriti, “come un segreto affidato, come in cavo di mano una ben stretta perla”, per ricorrere, in metafora, ai versi della poetessa Daria Menicanti.
Tratti pasoliniani
Oltre la poesia dell’unico vero sentimento possibile, gli altri rapporti che si delineano nel romanzo hanno invece qualcosa di pasoliniano nell’idea che finalizza le relazioni all’opportunità, in una sorta di evoluzione contemporanea della trasformazione antropologica che Pasolini stesso aveva individuato modificare la gioventù romana raccontata così efficacemente nei suoi romanzi più celebri.
Nel romanzo di Perrone, le molteplici vite piccolo borghesi, apparentemente felici ed equilibrate, si muovono in una Roma ripercorsa nei suoi luoghi magici: da Villa Ada a Villa Borghese, dalle terrazze di Piazza Ungheria al Conservatorio di Santa Cecilia. Proprio nelle distonie di questi equilibri apparenti, si annida lo spettro del dolore per chi soggioga o è soggiogato, perché forse non sa amare altrimenti o perché, in fondo, essere in un rapporto di forza è l’unico modo in cui si percepisce davvero vivo.
Concludendo, si può forse affermare che In tante pare e poi l’amore, il desiderio muove il mondo, come un burattinaio, e struttura le relazioni come rapporti di forza. Il sentimento autentico, quello vero, è possibile soltanto fuori dalla messa in scena dello spettacolo quotidiano, soltanto oltre la danza rituale dell’apparire e il desoderio di possedere. Questo romanzo, ambientato in un’unica giornata destinata a concludersi con una partita tra vecchi amici, ciascuno nel proprio ruolo, ciscuno intento nel proprio gioco, si propone come una sorta di odissea corale, agli antipodi dell’Ulisse di Joyce, raccontata dall’autore con uno sguardo attento quanto disincantato sul mondo.
Cinzia Mescolini