Papa Francesco ha scritto un nuovo libro, in vista dell’imminente Giubileo 2025. Si intitola La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore. Edito in Italia da Piemme, da oggi è in libreria. Lo ha curato il giornalista argentino Hernán Reyes Alcaide. Dunque è stato scritto in spagnolo e poi tradotto. Il libro si concentra sul nodo delle migrazioni, ma tocca anche un tema di tragica attualità come la guerra in Medio Oriente. La guerra scatenata da Hamas contro Israele con la carneficina del 7 ottobre 2023. Guerra che non poteva che provocare la risposta militare di Israele, sia contro Hamas sia contro Hebollah, le organizzazioni fondamentaliste islamiche – la prima sunnita, la seconda sciita – finanziate dall’Iran, che nei loro statuti si pongono come obiettivo la cancellazione di Israele dalle carte geografiche.
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La strage del 7 ottobre è stata presto dimenticata e subito è cominciata la critica contro la reazione israeliana. L’aggredito che reagisce è stato dipinto come aggressore. Ne è derivata, non solo in Italia, una ondata di antisemitismo.
Poteva non parlarne il Papa? Forse si, forse no. Ma lo ha fatto – da cattolico lo dico con dispiacere – con una frase definibile quantomeno ambigua: “A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali”. Mi verrebbe da chiedere al Santo Padre nomi e cognomi di questi “esperti”. Comunque, il Papa non definisce genocidio la reazione israeliana. Invita, piuttosto, con “attenzione”, a riflettere se di genocidio si possa parlare. Così formulata, la frase, può essere letta in due modi opposti. Il Papa pensa che si possa parlare di genocidio. Oppure avverte che sarebbe errato pensarlo e invita a rileggere la definizione di genocidio accettata dall’Onu. Ma, scritta così, era fatale che fosse interpretata come una condanna di Israele, che ha subito protestato.
Perché usare una formula così ambigua? Domanda legittima, anche se Papa Francesco ci ha abituato a sortite stupefacenti. Intervistata dal Corriere della Sera, Edith Bruck, perplessa e addolorata, pur grata al Papa per le sue visite, si è detta convinta che “Non ha il controllo di quello che dice: non è italiano”. Tutti lo abbiamo spesso pensato, come quando se ne uscì con il termine “frociaggine”. Ma il libro è scritto in spagnolo e tradotto. Difficile pensare a una traduzione non letta e riletta. Resta, dunque, l’ambiguità. Almeno per me. Onestamente il Papa poteva essere più chiaro, affinché il suo pensiero non rischiasse di essere male interpretato.
Da cattolico mi dispiace. Anche se, da cattolico, so perfettamente che il Papa, successore di Pietro e vicario di Cristo, è infallibile solo quando parla ex cathedra. Per chiarezza uso la definizione della Treccani: ex cathedra è una “Espressione che nella dottrina cattolica designa la condizione in cui il papa gode della funzione di pastore e dottore della Chiesa, quando definisce un dogma di fede o un articolo di morale”. In questo caso debbo obbedire e dire solo “credo”. Per il resto le mie opinioni e quelle di Jorge Mario Bergoglio hanno la medesima legittimità.
Poiché il Papa per la definizione di genocidio si appella alle definizioni dei giuristi e delle organizzazioni internazionali, è bene ricordare che il termine genocidio fu creato nel 1944 da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, trasferitosi negli Stati Uniti, dove insegnò diritto internazionale alla Yale University. Come spiega Marco Raspanti nella Treccani, Lemkin chiarì che “Per genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico”, e come “un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. […] Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale”.
La Convenzione sul genocidio fu approvata dall’Assemblea generale dell’Onu il 9 dicembre 1948 con la risoluzione 260. Vi si legge: «1) Le parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire e a punire. 2) Nella seguente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. 3) Saranno puniti i seguenti atti: a) genocidio; b) l’intesa mirante a commettere genocidio; c) l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidi; d) il tentativo di genocidio; e) la complicità nel genocidio».
Ne consegue, con un’evidenza palmare che solo gli ipocriti – e gli antisemiti – possono contestare, che la guerra di reazione di Israele nella Striscia di Gaza non può definirsi genocidio. Israele non vuole sterminare un popolo – gli arabi di Gaza – ma vuole distruggere Hamas, l’organizzazione terroristica artefice della mattanza del 7 ottobre, che come obiettivo politico si pone la cancellazione dello Stato di Israele. “Dal fiume al mare”, dal Giordano al Mediterraneo, questo significa. Nel caso, è Hamas che può legittimamente essere accusata di «incitamento diretto e pubblico a commettere genocidi». Con tutto il rispetto, qualcuno lo spieghi al Papa. La speranza non delude mai.