Quando i bersaglieri italiani, il 20 settembre 1870, varcano la breccia di Porta Pia, Roma ha circa 220mila abitanti. In quell’anno Parigi ne conta oltre 1 milione e 800mila, Vienna 850mila, Londra lambiva i 5 milioni, Napoli quasi 500mila, Torino e Firenze 200mila. I numeri non fanno la storia, ma la storia fa le capitali. Per questo Roma, il 3 febbraio 1871 è proclamata capitale del Regno d’Italia, restando tuttavia, per almeno quattro decenni, “una capitale in un certo senso improvvisata, anche se essa era fatalmente destinata da sempre a un simile ruolo”, come ricorda Ernesto Galli della Loggia nel suo saggio fresco di stampa Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista (il Mulino). E spiega: “Roma infatti è la città depositaria di una storia straordinaria, assolutamente ed esclusivamente sua e insieme universale”.
Sul filo della memoria, camminando per strade e quartieri, Galli della Loggia racconta la “Roma fascista dopo il fascismo” che ha conosciuto da ragazzo, la Roma dove “il fascismo ancora si sentiva, si respirava in qualche modo ovunque”. Perché “Roma fu investita dal fascismo come un ciclone“. Rincorrendo la modernità. Lo testimoniano tracce ben visibili grazie alla “frenesia edilizio-apologetica” del fascismo e del suo capo, che “si trovò di fatto ad affidare le proprie fortune a uno stile figurale. Cioè in fin dei conti ad un’estetica”. In sostanza, dalla Roma ancora molto papalina si passa alla Roma moderna. “Di questa modernità fascista così come dei suoi tempi e anche del suo capo – chiarisce Galli della Loggia – tutti conosciamo perfettamente i contenuti ideologici e politici per noi inaccettabili. E tuttavia è come se avvertissimo che quella modernità esprime comunque qualcosa che non può essere racchiuso nel cerchio del negativo, non può essere esclusivamente riferito o ridotto a un male, che pure ci fu e fu sostanziale“.
Quella modernità montante, che non è fatta solo di pietra ma da cultura, di mutamento sociale con la nascita di un forte ceto borghese, di arte, di cinema, di radio, di nuovi costumi, risulta ancora attrattiva. “Un’attrazione nella quale però non bisogna leggere alcun dissimulato rimpianto di natura politica. Essa esprime e tradisce, infatti, qualcosa di assolutamente diverso: semmai una nostalgia. Ma una nostalgia […] lo ripeto, che non ha nulla di politico. È la nostalgia per quello che è stato un momento aurorale della nostra modernità”
Galli della Loggia si sofferma a lungo – senza sottacerne gli aspetti grotteschi – sulla rimodulazione urbanistica della città, sulla nascita dei nuovi quartieri borghesi e popolari, sull’espansione verso il mare, sulle pessime “borgate”, sugli “sventramenti” del centro storico, peraltro già progettati ma non portati a termine nella capitale dell’Italia liberale, che dovette da subito riuscire ad accogliere i dipendenti statali necessari per gestire il governo. Ma non solo per questo. C’era da risanare una città decrepita
In ogni caso, nella percezione pubblica, quegli interventi sono dimenticati. Perché – scrive Galli della Loggia – “la fortissima enfasi che dopo il 1945, in omaggio al proprio impegno antifascista, la cultura architettonica e urbanistica italiana e con essa la storiografia hanno posto sugli sventramenti mussoliniani ha oscurato la vastità e l’importanza delle demolizioni che furono operate in precedenza, nei decessi immediatamente successivi al 1970”.
Non dimentica, Galli della Loggia, che, in realtà, una visione della nuova Roma si ebbe solo con il Comune gestito tra il 1907 al 1913, dal sindaco laico Ernesto Nathan, quando Roma si stava espandendo, quando cominciò l’epoca dei “villini”, al quali successivamente si aggiunsero le “palazzine”, accanto a immobili quasi monumentali destinati ai ceti meno abbienti. La Grande Guerra lasciò tutto sospeso. Ma Roma era cresciuta. Nel 1921 gli abitanti erano orma quasi 700mila. E crescerà ancora. Quasi un milione e 200mila nel 1936, un milione e 400mila nel 1942.
In quel torno di tempo, comunque, nasce la nuova Roma, la vera Roma Capitale, anche della cultura. Sulla base di una visione per certi versi ambigua, certamente “monumentale”, ma – sottolinea Galli della Loggia – senza l’ambizione di creare un’<arte di Stato – che invece ci fu, eccome, nella Russia dei soviet o nella Germania nazista>. Né una “architettura di Stato”. “E anche questo dato, direi, appare una smentita alla troppo facile assimilazione del fascismo al nazismo e al comunismo sotto la comune etichetta del totalitarismo”, nonostante sia stato una dittatura.
In particolare, Galli della Loggia, contro la vulgata dominante, chiarisce che “Il fascismo fu un regime diverso dal nazismo. Non per questo buono o esente da colpe anche gravi o gravissime, ma semplicemente e profondamente diverso“. Quella vulgata storiografica che rifugge da qualunque riflessione sulle “cose” fatte dal fascismo. Non basta condannare la dittatura. Non basta condannare le leggi razziali e l’alleanza con Hitler. Non basta condannare la violenza, lo Stato di polizia. Non si può neppure ipotizzare che il fascismo, nonostante tutto, abbia fatto anche “cose buone”. Il che, capita, in verità, sotto ogni regime.
In questo senso Galli della Loggia si azzarda a domandarsi se non sia corretto e possibile ammettere – ottant’anni dopo la sua fine – che qualche cosa di buono è stato fatto anche negli anni del fascismo, in particolare rendendo Roma una capitale moderna. Un vero azzardo. Che, sia pure con eleganza, lo storico Fulvio Cammarano non manca di criticare nella sua recensione del volume sul Corriere della Sera (La città eterna del fascismo, 15 novembre), di cui lo storico Ernesto Galli della Loggia è autorevolissimo editorialista.
<È nella natura stessa della spoliticizzazione imposta dal fascismo – nota dunque Cammarano – che le facciate, per quanto scintillanti e talvolta ben confezionate, siano destinate a rimanere “amministrazione” di una società in cui è negata una vita politica autonoma: per rispondere dunque all’interrogativo iniziale, verrebbe da dire che, senza politica vera, conflittuale, non ci sono, per una comunità, “cose buone” e pertanto, oggi che le scelte estetiche e urbanistiche di quel regime si mostrano per quello che effettivamente furono, dilatazione enfatica dell’ordinaria amministrazione, ci si potrebbe limitare a sostenere che il fascismo “ha fatto anche cose appariscenti”>. Insomma, l’interpretazione di Galli della Loggia deve essere presa con le molle. È una opinione. Da prendere con le molle. Meglio leggere il libro, senza pregiudizi.