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Accabò, la sindrome di Down raccontata da Isabella Becherucci tra sorellanza e scoperta di sé

Pubblicato: 25/11/2024 16:23

Accabò”: è una parola senza senso, sequenza inesatta di sillabe, che diventa l’ultima voce di una vita. Come tutte le formule magiche, nasconde il mistero di una lingua possibile, specchio di una realtà parallela che da qualche parte deve pur esistere. In Accabò, il nuovo romanzo di Isabella Becherucci (Il Canneto Editore, 2024, pp. 200), la parola magica mette in connessione due vite: quella reale, esteriore, inquadrata nelle definizioni mediche, sancita dai concorsi, legittimata dai nomi, e quella vissuta nel segreto correre della fantasia, nella duttilità identitaria, nella docilità e perversione dei sentimenti.

Accabò è un romanzo dalla superficie complessa. A volte, lo troviamo indugiare sui toni della narrazione naturalistica, quasi una memorialistica ottocentesca, coi modi sommessi della bella società; altre volte si volge a ricostruzione (auto)biografica, nervosa e pudica, di vicende molto vicine nel tempo; altre ancora a ricordo sentimentale, affetto dalle tinte tenere e rosa. Trovare una sola direzione è complesso: forse volutamente, forse più verosimilmente per un adagiarsi su un’ispirazione fluida, sul rigetto di una pianificazione che rischia di far sprofondare in un mondo asettico e distante quanto di più vicino è al cuore dell’autrice: cioè disegnare il rapporto strettissimo che la protagonista ha con la sorella maggiore affetta da sindrome di Down

Delle due sorelle che animano il romanzo, infatti, la focalizzazione è interamente su Disdetta. La sorella ne è l’oggetto di osservazione, a volte coprotagonista, altre volte complice, compagna nella vita e nell’invenzione di storie. E quando il personaggio della sorella Luisa è al centro, nella reinvenzione, nella trasposizione dal piano autobiografico a quello letterario, la narrativa si scopre più efficace, il ritmo si fa più coinvolgente, l’immagine più sincera. Diverso quando l’occhio si posa su Disdetta, alter ego (non) mascherato della scrittrice: lo sguardo diviene più duro, poco indulgente, e al tempo stesso vi si percepisce un riserbo a entrare più a fondo nell’intimità del personaggio. Sono i momenti in cui si privilegiano i dettagli esterni, circostanziali, rispetto alla profondità psicologica ed emotiva, anche dove forse si cerca il contrario. 

L’alternarsi dello sguardo tra i personaggi esterni e la focalizzazione interna finisce così per creare una dinamica sussultoria nello sviluppo della storia. Ma quale storia? In principio sembra configurarsi un tessuto di racconti, che lascia il posto presto alla narrazione del rapporto tra le due sorelle. Quando la direzione sembra più chiara, però, ecco che il filo si perde di nuovo, per inseguire la vita in solitaria di Disdetta, alla ricerca della propria realizzazione professionale e personale. Solo alla fine, il ritorno alla sorella come la chiusura di un cerchio, la necessità forse soprattutto personale di fare i conti con un senso di responsabilità e di compassione, ma soprattutto con la presa di coscienza di un legame fortissimo, di una correlazione tra le due vite in senso affettivo, ma anche quasi ‘fenomenologico’.

L’alternanza degli spunti finisce per creare qualche confusione, e gli inserti narrativi delle prime pagine si mantengono i momenti più felici del racconto. Rimane il desiderio di concedere un tempo più lento alla lettura, di indugiare maggiormente sui dettagli, di rendere più espliciti i collegamenti degli eventi e dei sentimenti, per non perdere il significato in una chiarezza zoppicante. E, forse, di dimettere il pudore su sé stessi, quando si voglia fare di sé stessi un personaggio. 

Ma l’ingrato compito di rappresentarsi, come male necessario di una necessità che è altrove – perché non è la storia di una vita, ma la storia di una relazione – è affrontato con uno strumento vincente: l’ironia. Non maschera di modestia, ma via per far dialogare due mondi, che possono coesistere solo rinunciando alla sclerosi seriosa che connota il nostro sguardo sul reale. Luisa, nella sua logicità parallela, nell’eccentricità in cui la sua persona si pone continuamente, obbliga a ridere sempre: di lei, e di noi. E ci fa chiedere: chi è il sano, chi è il malato? Chi è il saggio, chi è lo sciocco? Qual è la vita reale, quella delle cose e dei nomi, o quella della fantasia e delle emozioni?

Lasciate da parte le biografie familiari dei ‘grandi’ – come l’Alessandro Manzoni de Gli amici di Brusuglio – Becherucci torna ancora alla dimensione domestica e familiare, ma in una casa più vicina, talmente vicina da essere la sua. E dietro il nome esplicito “Disdetta” – un po’ come la “Modesta” di Goliarda – ci propone un rovesciamento di sé che ristabilisce il corretto ordine del reale: i vincitori hanno perso, rinunciando allo scontro. I caduti ridono ancora della nostra pazzia.

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Ultimo Aggiornamento: 25/11/2024 16:51

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