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Reggio Calabria, due ragazzine violentate da rampolli della ‘ndrangheta: osteggiate nel denunciare anche dai familiari

Pubblicato: 22/12/2024 08:36

Un crimine che scuote l’anima e impone una profonda riflessione: per oltre un anno, quindici uomini e ragazzi, alcuni dei quali minorenni, hanno abusato di due giovanissime a Seminara, in provincia di Reggio Calabria. La vicenda, emersa grazie all’inchiesta “Masnada” della Procura di Palmi, mette in luce non solo la brutalità degli atti, ma anche il contesto di omertà, paura e potere mafioso che ha contribuito a renderli possibili.

Un contesto di paura e intimidazione

Le due vittime non erano solo prede della violenza fisica, ma anche dell’intimidazione psicologica di un ambiente soffocante. Tra gli aggressori figurano rampolli di famiglie legate alla ‘ndrangheta, una realtà che ancora oggi domina molti territori della Calabria, imponendo un controllo che supera i confini del crimine e si insinua nelle vite delle persone. La paura del nome, dell’influenza e delle possibili ritorsioni ha reso impossibile per le ragazzine chiedere aiuto o ribellarsi.

La scoperta degli abusi: un caso nato per caso

Non è stata una denuncia a far emergere la vicenda, bensì intercettazioni effettuate nel corso di un’inchiesta antimafia. Alcuni dei ragazzi coinvolti erano già sotto osservazione per i loro legami con clan locali. Durante le indagini, gli inquirenti hanno scoperto video inequivocabili conservati sui telefoni cellulari: immagini che documentano non solo gli stupri, ma anche le umiliazioni verbali inflitte alle vittime, ridotte a oggetti da usare, filmare e deridere.

“Abbiamo seguito in diretta l’organizzazione delle violenze”, ha dichiarato Emanuele Crescenti, allora procuratore. Questo ha reso necessario un intervento immediato per salvare le vittime, ma ha anche portato alla consapevolezza che il numero degli aguzzini potesse essere molto più ampio di quanto inizialmente emerso.

Il silenzio imposto dalle famiglie

Una delle storie più drammatiche riguarda una delle due ragazze, la cui famiglia stessa l’ha costretta al silenzio. Dopo i primi arresti, i suoi familiari l’hanno minacciata e insultata, tentando persino di farla dichiarare incapace di intendere e di volere. “Perché non ti ammazzi?” le ripetevano, mentre cercavano di far sparire prove e coprire le tracce degli abusi. Questo comportamento non solo aggrava il dolore della vittima, ma evidenzia una cultura di complicità e negazione che protegge gli aggressori a scapito della giustizia.

Un sistema che opprime le vittime

Le indagini hanno portato a numerosi arresti: giovani uomini tra i 18 e i 32 anni, con posizioni di potere nel contesto locale, sono stati identificati come parte del gruppo di aggressori. Alcuni sono finiti in carcere, altri agli arresti domiciliari. Tuttavia, il quadro che emerge è quello di una società in cui le vittime sono spesso sole, oppresse non solo dai loro aguzzini, ma anche da un contesto sociale e familiare che perpetua l’omertà e la cultura della sopraffazione.

Una storia che richiede giustizia e cambiamento

Questa vicenda è l’ennesimo monito della necessità di intervenire con decisione contro la violenza di genere, specialmente in contesti dove il potere mafioso e la mentalità patriarcale si intrecciano per soffocare ogni tentativo di ribellione. La giustizia ha fatto il suo corso, ma il lavoro è tutt’altro che finito.

Occorre rompere il silenzio e dare voce a chi non può parlare. Educare alla parità, sostenere le vittime e combattere senza sosta la cultura dell’omertà sono passi fondamentali per evitare che storie come questa si ripetano. Solo così si potrà restituire dignità e speranza a chi è stato brutalmente privato della propria libertà e innocenza.

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