
Il caso del generale libico Almasri, arrestato a Torino su mandato della Corte Penale Internazionale e successivamente scarcerato, ha portato all’apertura di un’indagine da parte del tribunale dei ministri. Sotto esame vi sono le decisioni prese tra il 18 e il 21 gennaio dai vertici del governo italiano, in particolare dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, dalla premier Giorgia Meloni, dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano.
La catena di eventi: dall’arresto alla scarcerazione
Il 18 gennaio, la Corte Penale Internazionale comunica informalmente che sta per emettere un mandato di cattura per Almasri, destinato all’Italia e ad altri sei Paesi. Il mandato viene effettivamente inviato nelle ore successive al magistrato di collegamento presso l’ambasciata italiana nei Paesi Bassi e, successivamente, al ministero della Giustizia italiano il 19 gennaio nel pomeriggio. Il giorno successivo, il 20 gennaio, la Corte d’Appello di Roma chiede di sanare un errore procedurale per evitare la scarcerazione del generale libico.
Gli uffici del ministero della Giustizia preparano quindi una nuova documentazione che avrebbe potuto garantire la detenzione di Almasri. Il ministro Nordio non inoltra il provvedimento né si attiva per sollevare eventuali questioni di diritto con la CPI, come previsto dall’articolo 86 dello Statuto di Roma, che impone un obbligo di cooperazione con la Corte. Il risultato è che, dopo 36 ore di silenzio da parte del ministero, Almasri viene scarcerato e riaccompagnato in Libia su un volo di Stato.

Le accuse e l’indagine del tribunale dei ministri
L’inchiesta del tribunale dei ministri è stata avviata a seguito di un esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti, che ha chiesto accertamenti su presunti reati di favoreggiamento e peculato, quest’ultimo legato all’uso dell’aereo di Stato per il rientro di Almasri. La procura di Roma, dopo aver verificato la non manifesta infondatezza della denuncia, ha trasmesso gli atti al tribunale dei ministri, che ha dato il via agli accertamenti.
A rischiare di più è proprio il ministro della Giustizia Carlo Nordio. A lui, oltre ai reati indicati nell’esposto, viene contestata anche l’omissione di atti d’ufficio, per la mancata trasmissione dei documenti che avrebbero consentito di mantenere in stato di detenzione Almasri. Il tribunale dei ministri ha chiesto di acquisire tutta la documentazione relativa agli scambi tra il ministero, la Corte Penale Internazionale, l’ufficio di collegamento dell’ambasciata italiana nei Paesi Bassi e la Corte d’Appello di Roma. L’analisi della corrispondenza sarà decisiva per chiarire se l’Italia abbia deliberatamente violato l’obbligo di cooperazione con la CPI.
Implicazioni politiche e giuridiche
La questione solleva interrogativi non solo di natura giuridica ma anche politica. Nordio, intervenendo in Parlamento, ha sostenuto di aver avuto il diritto di valutare se dare seguito alla richiesta della CPI. Ma la maggior parte degli esperti di diritto internazionale considera vincolante l’obbligo di collaborazione previsto dallo Statuto di Roma. Se questa interpretazione venisse confermata, il comportamento del governo italiano risulterebbe in contrasto con gli obblighi internazionali.
Nei prossimi giorni, il tribunale dei ministri procederà all’analisi degli atti e della corrispondenza per stabilire eventuali responsabilità. Resta da capire se l’indagine si tradurrà in un rinvio a giudizio o se la vicenda si chiuderà con un nulla di fatto. Di certo, il caso Almasri rappresenta una questione spinosa per il governo, con possibili ripercussioni sia sul piano giuridico che su quello diplomatico.