
L’ultima inchiesta di Milena Gabanelli nella sua Data Room del Corriere della Sera è dedicata agli esami che si svolgono in farmacia. Queste ultime, infatti, promettono di eseguire esami non invasivi che fanno risparmiare tempo senza le lunghe attese lontano da casa con la stessa qualità dei risultati di un laboratorio. Tale affermazione, però, ha fatto sorgere qualche sospetto alla giornalista che, insieme a Simona Ravizza, ha voluto vederci chiaro. Per esami non invasivi si intende nessun ago in vena: le analisi sono eseguite pungendo il polpastrello di un dito da cui viene prelevata una goccia di sangue, poi depositata su una striscia o un dischetto reattivo che viene inserito in uno strumento diagnostico. L’esito è immediato. Come si legge in molti siti e ormai anche in molte locandine poste proprio fuori dalle farmacie dei nostri paesi e delle nostre città, parliamo delle analisi per misurare i valori di colesterolo, trigliceridi, glicemia, emoglobina glicata, potassio, transaminasi, creatinina, Proteina C-Reattiva, PT/INR (tempo di protrombina) e persino i 18 parametri dell’emocromo. Ma qual è il livello di attendibilità di questi risultati?
Leggi anche: L’Europa vieta caminetti e stufe: a partire da quando e perché. È rivolta

I risultati sono determinati da tre fattori principali: gli strumenti con cui vengono svolte le analisi, i controlli di qualità prima dell’esecuzione dell’esame, il tipo di referto. Come rivela Gabanelli nel suo articolo, i laboratori di analisi “tradizionali”, sono sottoposti per legge a un controllo di qualità interno e a uno esterno. “Significa che ogni mattina, e dove necessario più volte al giorno, viene controllato il buon funzionamento del macchinario che esegue l’esame”. E come fanno? “Viene inserito nello strumento un campione di materiale di cui si conoscono i valori e poi vengono confrontati con il risultato ottenuto. Inoltre, periodicamente, il risultato deve essere confrontato anche con quello di altri laboratori. Una procedura che consente al paziente, qualora si rivolga a strutture differenti, di avere la garanzia che i parametri siano sempre confrontabili”. Le farmacie, invece, non hanno alcun obbligo: “Né sul controllo di qualità dei risultati – scrivono le autrici dell’inchiesta – né sugli strumenti e le procedure che utilizzano”. Di fatto, “ciò che viene misurato può non corrispondere ai valori che realmente circolano nel sangue”.

Il risultato dell’inchiesta di Gabanelli è che “i sistemi diagnostici in uso nelle farmacie […] difficilmente riescono a garantire la stessa qualità dei risultati delle analisi eseguite in laboratorio“. Dopodiché vengono riportati alcuni dei numerosi studi pubblicati a livello internazionale dalla National Library of Medicine. In base ai dati raccolti, i laboratori clinici per consentire una diagnosi accurata devono assicurare un margine di errore inferiore al 6,1%. Gli strumenti in uso nelle farmacie, invece, hanno un margine di incertezza fra il 15 e il 20%, esponendo al rischio di sovra o sotto diagnosi (falsi positivi e/o falsi negativi). Infine, capitolo referto: cosa consegna la farmacia? “Uno scontrino anonimo, senza la firma dell’operatore sanitario che ha eseguito le analisi e senza i valori di riferimento”. Un foglietto che “non ha alcun valore di referto medico, non è tracciabile, né compare nel fascicolo sanitario elettronico”. Però i dati rivelano anche che sono sempre di più i cittadini che eseguono a pagamento questi tipi di esami nelle farmacie, ma “difficilmente vengono informati sull’affidabilità delle analisi“.