
Nel silenzio ovattato di una stanza d’ospedale Papa Francesco riposa, mentre il mondo attende il respiro del suo pastore. La sua carne, fragile come quella di ogni uomo, porta il peso di una missione millenaria, un’eredità che ha attraversato i secoli e che ora, nel battito quieto del tempo sospeso, si raccoglie in un’attesa densa di significato.
Che la forza dell’uomo che ha scelto il nome del santo di Assisi possa rinnovarsi nel battito delle sue mani aperte, nel ritmo del suo respiro che cerca spazio nella notte. Che la sua carne, fragile come ogni carne, trovi ristoro nel pensiero di chi oggi gli è vicino con lo sguardo e con il cuore. Che il tempo, con il suo passo lento e inesorabile, gli restituisca il vigore necessario per tornare a parlare, a benedire, a camminare accanto agli ultimi. Nessun dio, nessun altare: solo la speranza che il dolore si plachi, che il corpo si rialzi, che il cammino riprenda.
Nella storia della Chiesa, il corpo del Papa è sempre stato il simbolo di una tensione tra il terreno e il divino, tra il limite della carne e l’infinito della parola. Da Gregorio Magno, consumato dalla peste mentre innalzava suppliche per Roma, a Pio VII, piegato dalla prigionia napoleonica, i successori di Pietro hanno conosciuto la sofferenza come parte indissolubile del loro mandato. Ora, Francesco si trova a condividere con loro non solo la croce del ministero, ma quella più umana e universale della malattia.
Non è un caso che il suo pontificato sia stato segnato dal respiro affannato degli ultimi. Dalla finestra di San Pietro, le sue parole hanno spesso cercato l’ossigeno della speranza per chi, nei vicoli della storia, è rimasto senza fiato: i migranti dispersi nei deserti e nei mari, i poveri schiacciati dalle logiche spietate dell’economia, le vittime di guerre che, come fuoco sotto la cenere, continuano a divorare il mondo. Francesco ha parlato per chi non ha voce, ha chiesto tregua dove c’era solo ferro e ha insegnato che il potere della Chiesa non è nella forza ma nella carezza.
Oggi, mentre il suo respiro si fa corto, è il mondo intero a trattenere il fiato. Non servono miracoli, né gesti eroici. Basta che il pastore torni a camminare, che la sua voce ancora una volta spezzi il silenzio e che il suo fiato—umano, fragile, vivo—possa ancora fondersi con quello della storia.