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L’ipocrisia italiana e il tabù della verità: il riarmo che non si può dire

Pubblicato: 10/03/2025 10:01

In Italia la verità è sempre un problema. Non la si affronta, la si aggira. Non la si dice, la si insinua. Non la si chiama con il suo nome, la si maschera con parole rassicuranti. È un vizio antico, trasversale, radicato in ogni piega del dibattito pubblico e della politica. Nessuno vuole prendersi la responsabilità di dire le cose come stanno, perché farlo significherebbe esporsi, rendere conto delle proprie scelte, uscire dalla nebbia rassicurante delle formule ambigue. E così, su ogni tema delicato, si preferisce il compromesso lessicale.

Oggi il grande non detto si chiama riarmo europeo. Perché di questo si tratta, ma nessuno ha il coraggio di chiamarlo con il suo vero nome. Si parla di “rafforzamento della difesa”, di “modernizzazione delle forze armate”, di “autonomia strategica”, e nel frattempo si moltiplicano le spese per gli armamenti, si firmano nuovi contratti per caccia, carri armati e sistemi missilistici, si allestiscono nuove basi strategiche. Tutto senza mai pronunciare la parola proibita: riarmo.

A destra si inneggia alla sovranità e alla necessità di un’Italia più forte. A sinistra si invoca l’Europa e si nasconde il tutto dietro il concetto rassicurante di “difesa comune”. Nessuno, però, ha il coraggio di spiegare agli italiani che stiamo entrando in una nuova fase della storia europea, in cui la guerra non è più un’eventualità remota, ma una possibilità concreta da preparare e attrezzare. Perché, allora, nessuno lo dice apertamente?

Non così nel Nord Europa, dove la politica ha un rapporto molto più diretto con la verità. Ursula von der Leyen, con il suo pragmatismo tedesco, ha detto chiaramente che l’Europa deve riarmarsi. Ha parlato di industrie belliche da rafforzare, di produzione di munizioni da aumentare, di difesa collettiva come scelta obbligata. Senza ipocrisie, senza giri di parole. Perché è così che dovrebbe essere: se una decisione è giusta, va spiegata con chiarezza, non mascherata dietro eufemismi.

In Italia, invece, il gioco è sempre lo stesso: si costruisce il consenso con parole vuote, si evitano le definizioni nette, si spera che l’opinione pubblica non si accorga di quello che sta accadendo. Ma la verità, anche se non la si dice, esiste. E prima o poi presenta il conto. Chi governa dovrebbe imparare dalla scuola nordica della sincerità: meglio una scomoda verità detta in tempo che un inganno protratto all’infinito.

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