
Il pedale del freno le è scivolato ancora. Con buona pace della storia recente d’Italia, per l’ennesima volta riletta e corretta pro domo “a noi”. Oggi alla Camera dei deputati, al completo per ascoltare le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla posizione dell’Italia in vista del Consiglio europeo di domani, è andato in scena l’ultimo episodio.
Meloni ha citato, non esattamente in un contesto che possa ritenersi accettabile, un passo del Manifesto di Ventotene del 1941 che, come documento politico di impianto federalista e socialista, ritenuto fondante per l’Unione europea, era stato pensato e indirizzato contro i danni ascritti – fino a quella data, ma poi furono ben peggiori – agli Stati nazionali dell’Europa in guerra. Quindi non deve stupire la citazione, diciamo che è nell’ordine naturale delle cose in questi tempi di populismo transnazionale. Tuttavia, l’attacco rivolto oggi dalla presidente Meloni al testo scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi risente di una lettura parziale, con citazioni isolate dal contesto storico di 84 anni fa. Anni in cui la dittatura fascista aveva spedito quei due “avversari politici” al confino nell’isola del Tirreno.
La leader di Fratelli d’Italia, da quando è a Palazzo Chigi, non si lascia sfuggire nessuna uscita pubblica per lanciare frecciate – eufemismo – all’opposizione interna. Che l’obiettivo sia Renzi con i suoi trascorsi e presenti, oppure Conte con i suoi voli pindarici a 5 Stelle, Meloni non manca mai di rivangare/rinfacciare elementi fattuali che possano mettere in cattiva luce l’avversario. Ma non sempre l’obiettivo viene raggiunto, specialmente quando il suo team di ghostwriter le mette sulla scrivania i possibili argomenti per ergersi ancora a leader di partito e di opposizione in un sol soggetto. Causando pericolose defaillance che si acuiscono quando gli stessi autori si spingono a consultare fatti storici a uso e consumo della causa.
Ma i fatti di questa legislatura insegnano che a Fratelli d’Italia sono in pochi, pochissimi, ad aver letto e compreso i libri di storia italiana ed europea. Così è accaduto stavolta alla Camera, nella discussione sulle comunicazioni per il vertice di Bruxelles. Qui, a differenza dell’uscita della premier di ieri al Senato, apparsa quantomeno istituzionale e pacifica (non pacifista), Meloni ha deciso che doveva lanciare una sua parola d’ordine alla platea dei fedelissimi. Seguendo un risvolto tattico non secondario: dopo aver ricondotto la Lega nell’ordine di squadra (ma con i ministri assenti inizialmente a Montecitorio), visto che si gioca in quell’Europa dove Salvini fa il diavolo a quattro, andava piazzato un diretto al volto alla minoranza già spacchettata di suo. Per far capire a Matteo che, quando c’è da dare due schiaffi ai burocrati di Bruxelles, strizzando l’occhio a Trump, lei ci sta eccome.
Colpo riuscito? Lo spettacolo non è mancato, con tanto di seduta sospesa tra urla e qualche insulto. Ma sul piano tattico il boomerang, con l’opposizione tutta che ha colto lo scivolone in diretta per mettere in scena un insperato ricompattamento generale, rischia di vanificare lo sforzo profuso. Altro che leader della destra liberale e conservatrice, ruolo a cui Giorgia Meloni sente di poter legittimamente aspirare, anche in ambito continentale. Così, scarrucolando con la febbre da citazione, quel ruolo continua a sfuggirle. Così come ogni volta che sente ronzarle in testa l’irrefrenabile tarlo della rivalsa politica (o della vendetta?) sullo scenario parlamentare. E se ha un microfono davanti, il passo, falso o meno, è fatto.
Maneggiare la storia con cura non è un avviso che si trova affisso nelle stanze di Palazzo Chigi, dicono i fatti. Seguendo e percorrendo certe scorciatoie apparentemente di comodo si rischia di trovare strade accidentate, irte di dossi. E paradossi. Che il prossimo passo sia questo: “Togliatti comunista sì, ma che pensava avanti”? Dice la storia che la non punizione dei reati commessi in Italia durante il fascismo sia stata strettamente legata al decreto di amnistia e indulto del 22 giugno 1946, promosso dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, allora esponente del Partito Comunista Italiano e membro del governo di unità nazionale (guidato da Alcide De Gasperi). L’amnistia voluta da Togliatti rimane ancora oggi un tema controverso: da un lato favorì la stabilizzazione dell’Italia postbellica, dall’altro permise a molti fascisti di evitare il carcere e la giustizia e, in seguito, di aspirare ad avere uno spazio politico e un partito, il Movimento Sociale con la fiamma nel simbolo di FdI, nell’Italia repubblicana.
La decisione di Togliatti si inserì in una strategia più ampia di compromesso tra le forze politiche, tesa a garantire la nascita della Repubblica e la transizione democratica. Secondo l’arzigogolo letterario sfoderato oggi alla Camera dalla Meloni, basterebbe questa valutazione storica per arruolare il leader del PCI nelle figure del pantheon della sua destra?
Intanto, il 25 aprile, che quest’anno celebrerà gli 80 anni dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, si avvicina.