
Il femminicidio in Italia non è solo una tragica contingenza, ma il sintomo strutturale di una cultura patriarcale ancora profondamente radicata. Ogni anno decine di donne vengono uccise da partner, ex partner o familiari. Non si tratta di “raptus”, né di “crimini passionali”: l’assassinio di una donna in quanto donna è un atto di potere, il culmine violento di un sistema che considera la libertà femminile una minaccia.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2023 le vittime di omicidio volontario di sesso femminile sono state 120, di cui oltre l’80% uccise in ambito familiare o affettivo. Ma i numeri, per quanto allarmanti, non bastano a spiegare la matrice culturale di questi crimini.
Lo fa, con grande rigore, la sociologa Barbara Spinelli nel libro Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico (Ediesse, 2008). Spinelli mostra come il femminicidio sia l’esito di una catena di atti di controllo, manipolazione, violenza fisica e psicologica che spesso vengono minimizzati o ignorati anche dalle istituzioni. La sua analisi mette in luce il ritardo del diritto nel riconoscere la specificità di questo fenomeno, che non può essere trattato alla stregua di un omicidio “qualsiasi”.
Un altro contributo fondamentale è quello di Lorenza Perini con Uomini che uccidono le donne. Femminicidio e maschilità (FrancoAngeli, 2019), che decostruisce la figura dell’uomo violento. Perini rifiuta ogni approccio individualizzante e indaga le dinamiche collettive della maschilità tossica, indicando nella socializzazione maschile e nella fragilità del ruolo dell’uomo contemporaneo una delle radici del problema. In quest’ottica, il femminicidio appare come una risposta distorta alla perdita di controllo sulle donne che scelgono l’autonomia.
Ma il quadro italiano si aggrava se si guarda alla narrazione mediatica, spesso complice nel ridurre questi atti a storie d’amore finite male o nel colpevolizzare le vittime. Lo sottolinea Giulia Siviero nel saggio Il corpo del nemico. Il femminicidio e la costruzione del maschile (Il Saggiatore, 2023), che analizza come il linguaggio dei media e della politica contribuisca a normalizzare la violenza, evitando di nominarne la causa sistemica.
In questo contesto, appare evidente come la risposta punitiva dello Stato – pur necessaria – non possa bastare. Serve un cambiamento culturale profondo, che parta dall’educazione affettiva nelle scuole e dalla formazione degli operatori pubblici. Serve, soprattutto, una narrazione nuova, che restituisca alle donne il diritto di vivere libere senza dover morire per esserlo.
Il femminicidio non è un caso, né un destino. È il risultato di una società che ancora educa al dominio e giustifica il possesso. Interrogarlo con gli strumenti della sociologia non è solo utile: è un dovere civile.