
Cinquantuno anni dopo, la strage di Piazza della Loggia ha finalmente un colpevole con un nome e un volto. Il Tribunale per i minorenni di Brescia ha condannato a 30 anni di reclusione Marco Toffaloni, neofascista veronese, ritenuto colui che piazzò l’ordigno esploso il 28 maggio 1974, causando la morte di otto persone e il ferimento di altre 102.
Dopo le condanne all’ergastolo, divenute definitive nel 2017, per Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, considerati i mandanti dell’attentato, la sentenza su Toffaloni rappresenta un altro pezzo importante nella complessa ricostruzione giudiziaria della strage. Tuttavia, il provvedimento rischia di rimanere senza conseguenze concrete, data l’attuale residenza dell’uomo in Svizzera.
Un colpevole protetto dalla Svizzera
Da anni, Toffaloni vive in Svizzera sotto la nuova identità di Franco Maria Muller, godendo della cittadinanza elvetica. Nell’autunno del 2024, la giustizia svizzera ha rifiutato la richiesta dell’Italia di consegnarlo alle autorità bresciane e ha già dichiarato che non concederà l’estradizione, anche se la condanna dovesse diventare definitiva. Berna considera il reato di strage ormai prescritto, in contrasto con la legislazione italiana.
Le prove contro Toffaloni
L’accusa, rappresentata dai pubblici ministeri Silvio Bonfigli e Cate Bressanelli, ha basato il caso su diverse prove. Tra queste, le dichiarazioni di Gianpaolo Stimamiglio, ex esponente del Centro Studi Ordine Nuovo, che nel 2010 ha iniziato a collaborare con la magistratura. Stimamiglio ha raccontato di un incontro con Toffaloni nel 1989, in cui quest’ultimo gli avrebbe detto: “A Brescia gh’ero mì”, confermando implicitamente la sua presenza il giorno della strage.
Un altro elemento chiave è la perizia antropometrica su una fotografia scattata subito dopo l’attentato. Secondo gli esperti, nell’immagine appare il volto di un giovane riconducibile a Toffaloni, vicino al corpo di Alberto Trebeschi, una delle vittime.
Testimonianze e alibi fragili
Ulteriori prove arrivano dalla testimonianza di Ombretta Giacomazzi, compagna di Silvio Ferrari, giovane neofascista morto nove giorni prima della strage mentre trasportava un ordigno. La donna ha raccontato di aver visto Toffaloni nei luoghi frequentati dai servizi segreti italiani e americani, da sempre considerati punti nevralgici della strategia della tensione. Ha anche riferito di un’accesa discussione tra Toffaloni e il suo fidanzato, nata dal rifiuto di Ferrari di compiere un attentato già pianificato.
Determinanti anche alcune confidenze fatte dal padre di Toffaloni a dei vicini e i racconti di alcuni testimoni che lo descrivono come violento e razzista, ma abbastanza scaltro da organizzare la fuga all’estero. «Mi disse che stava scappando in Svizzera perché lo accusavano di aver incendiato delle auto, ma che non era vero. Mi disse anche che non lo cercavano per qualcosa di più grave in cui era coinvolto», ha raccontato una testimone in aula. Secondo i giudici, quel “qualcosa di più grave” era proprio la strage di Piazza della Loggia.