L’inquietudine negli ambienti finanziari si avverte chiaramente. Dopo una settimana da dimenticare, i mercati globali riaprono i battenti con il fiato corto e lo sguardo rivolto a Washington. Le domande, per ora, sono più delle risposte. La gente comune e i commentatori meno avvezzi a occuparsi di economia e finanza risponde “di pancia”, ma i più attenti non possono permettersi di perdere la calma. Servono sangue freddo e lungimiranza, anche se l’allarme è molto serio.
Sui monitor dei trader scorrono numeri rossi e grafici impietosi: la guerra dei dazi, lanciata ufficialmente dalla nuova amministrazione americana, si sta trasformando in qualcosa di più vasto e difficile da contenere. Non è più solo una disputa commerciale: è una crepa profonda nel sistema su cui si regge l’equilibrio economico globale.
La settimana rossa e la minaccia di recessione
A preoccupare, più delle perdite in sé – 5mila miliardi bruciati in pochi giorni a Wall Street, oltre 1.200 miliardi in Europa – è la traiettoria. I soldi bruciati in Borsa, andando al di là dei titoli dei giornali, si “rigenerano” se la Borsa stessa riprende quota, non sono persi per sempre. Ma se si entra in recessione è tutta un’altra storia.
E a questo proposito le stime di J.P. Morgan Chase parlano chiaro: la probabilità che gli Stati Uniti debbano affrontare una recessione è salita dal 40 al 60%. Perché, allora, Trump prosegue con la sua politica apparentemente controproducente? Perché gli interessi americani sono molto più ampi e complessi del semplice passaggio finanziario immediato.

Le vere cause: gli Usa puntano su se stessi, addio globalizzazione
Lo stesso Presidente ha fatto capire che un periodo di recessione è stato messo in conto dalla sua Amministrazione. Sì, perché quello che Trump vuole è “destabilizzare” il mondo per riaffermare la potenza degli Stati Uniti, mai come oggi a rischio.
Gli attuali avvenimenti dimostrano prima di tutto il fallimento della globalizzazione selvaggia, che pure negli economisti neoliberisti della scuola di Chicago aveva trovato i suoi mentori più entusiasti. Ora, dopo che certe teorie si sono rivelate fallimentari (era già capitato, per motivi diversi, nel 1929), l’America si chiude in se stessa. Trump punta a riportare la produzione, il lavoro e gli investimenti a casa, dopo tanti anni di delocalizzazioni che hanno indebolito e fiaccato non solo l’economia americana, ma anche quella europea.
Il segnale da Riyad e dal Vix
La Borsa di Riyad, spesso considerata un termometro geopolitico più che finanziario, ha chiuso domenica con un crollo del 6,8%, il peggiore dai tempi della pandemia. E poi c’è il Vix, l’indice della volatilità: salito oltre quota 45, ben al di sopra della soglia d’allarme. È un segnale che gli operatori non ignorano. Come se il mondo della finanza stesse tenendo il fiato in gola in attesa di una nuova scossa.
Un’Europa divisa tra trattativa e rigidità
L’Unione Europea osserva, divisa e indebolita. Nessuna risposta concreta, nessun piano annunciato. L’impressione – e questo preoccupa gli investitori – è che il Vecchio Continente non abbia ancora deciso se seguire la linea morbida di Paesi come il Vietnam, pronti a trattare con Washington, oppure optare per una postura più assertiva, come la Cina, che ha risposto colpo su colpo, alzando i dazi fino al 34%.

In due sedute soltanto, le Borse europee hanno cancellato dai listini l’equivalente di un’intera generazione industriale: Eni, Enel, Ferrari, Allianz, L’Oréal, Inditex, Siemens. Tutte, simbolicamente, spazzate via da un’ondata di sfiducia. E se la fiducia non torna, il rischio è che quel valore vada davvero perduto.
Il renminbi digitale e la minaccia valutaria
Intanto, Pechino gioca su un altro fronte. Il lancio del renminbi digitale, accompagnato da accordi valutari con il Sudest asiatico e il Medio Oriente – che insieme rappresentano il 38% dell’interscambio mondiale – è una mossa che va ben oltre i dazi. È un attacco frontale alla supremazia del dollaro, al cuore stesso del potere finanziario statunitense.
Un tempo i conflitti commerciali si combattevano soprattutto con i dazi; oggi si combattono anche con le valute, con gli algoritmi, con le piattaforme digitali. È il nuovo terreno di scontro, e in molti temono che a farne le spese possa essere l’intera architettura finanziaria internazionale.
Dalla finanza all’economia reale
Secondo il Financial Times, la preoccupazione principale è quella di un contagio dall’alto verso il basso: i mercati finanziari che affondano le aziende più fragili, le aziende che non reggono l’aumento dei costi e finiscono in default.
Non è un’ipotesi accademica: basta guardare ai crolli delle obbligazioni corporate per accorgersi che qualcosa si è già innescato. La spirale potrebbe essere già partita. Ed è una spirale che non riguarda più solo gli investitori, ma anche l’occupazione, la produzione, i salari.