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Minacce di morte a Trump: “Tante pallottole per la sua testa vuota”, intelligence in allarme

Pubblicato: 07/04/2025 18:21

Il Presidente americano Trump è sempre più al centro della bufera. The Donald ha ricevuto una seria minaccia di morte, esplicita anche nelle modalità di esecuzione, che proviene dalle pagine di un importante giornale: ma stavolta i dazi non c’entrano. La questione è legata a una vendetta azione che, in Medio Oriente, non conosce scadenze.

Così, a più di cinque anni dall’uccisione di Qassem Soleimani, comandante delle forze Qods delle Guardie della Rivoluzione islamica, sabato scorso il quotidiano iraniano Kayhan ha pubblicato un articolo che conteneva una minaccia di morte nei confronti di Donald Trump, indicato come mandante morale e politico del raid statunitense che, nel gennaio 2020, colpì a morte il generale a Baghdad.

“Trump verrà colpito nei prossimi giorni”

Il quotidiano, vicino alla Guida Suprema Ali Khamenei, e spesso considerato una cassa di risonanza dell’ala più intransigente del regime, ha scritto che “Trump riceverà vari proiettili che saranno sparati nella sua testa vuota nei prossimi giorni e di conseguenza morirà, per vendicare il sangue del martire Soleimani”. Parole durissime, che fanno saltare ogni pretesa di diplomazia, proiettando la crisi dal terreno del diritto internazionale a quello della minaccia esplicita.

In parallelo, e in evidente contrasto di tono, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Esmail Baghaei, ha annunciato che Teheran proseguirà nel tentativo di ottenere giustizia per la morte di Soleimani attraverso vie legali. “Stiamo seguendo i canali legali”, ha dichiarato, “per far valere i diritti del popolo iraniano contro un atto di terrorismo di Stato“.

È una linea che l’Iran ha più volte ribadito anche davanti agli organismi internazionali, denunciando l’attacco americano come una violazione del diritto internazionale e chiedendo che gli autori – materiali e morali – vengano perseguiti.

Un linguaggio che riporta indietro le lancette

Ma la dichiarazione si sovrappone, con inquietante ambiguità, all’articolo apparso su Kayhan. Un giornale che non è una voce indipendente qualunque: è supervisionato direttamente da un rappresentante del Leader Supremo, e ogni sua pubblicazione viene letta come un segnale politico. E questo segnale, oggi, ha il sapore di una dichiarazione di guerra personale.

Siamo di fronte a un linguaggio che riporta indietro le lancette della diplomazia. E cancella, in poche righe, i faticosi tentativi di distensione, pur intermittenti, tra Washington e Teheran. Un linguaggio che, oltre a rappresentare una minaccia diretta all’incolumità di un Presidente degli Stati Uniti, rischia di complicare ulteriormente gli equilibri già precari in un Medio Oriente scosso da guerre e rivalità mai sopite.

Il ritorno di Trump alla ribalta politica – dopo l’elezione dello scorso dicembre – riaccende in Iran ferite mai rimarginate, e la radicalizzazione verbale rischia di trasformare il martirio di Soleimani in un pretesto per nuove escalation.

Giustizia o vendetta? Il bivio di Teheran

C’è, infine, un interrogativo che pesa come un macigno sulla scena internazionale: l’Iran vuole davvero percorrere la strada del diritto, oppure sta solo guadagnando tempo mentre cova una vendetta su scala globale? Perché la dichiarazione di Kayhan, pur non rappresentando formalmente il governo, arriva da uno dei gangli vitali del potere teocratico. E l’ambiguità, in politica estera, può somigliare a una miccia accesa.

Nel frattempo, Washington osserva e prende nota. I servizi di intelligence sono già in allarme e il mondo trattiene il fiato, mentre sulle rovine dell’ordine internazionale risuona ancora il nome di Qassem Soleimani, martire per alcuni, criminale per altri, detonatore potenziale di una nuova, pericolosa stagione di tensioni.

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