
Altro che duro negoziatore. Altro che America First. Alla fine Donald Trump ha fatto quello che ogni presidente americano fa quando i mercati iniziano a sbranarlo: ha abbassato la testa e si è arreso. Travolto dalle perdite, bruciato nelle piazze finanziarie e scaricato da chi conta davvero, ha chiesto una tregua. Una sospensione reciproca dei dazi per 90 giorni, un’umiliante moratoria mascherata da vittoria diplomatica.
Eppure era partito come sempre, con la solita retorica del vincente accerchiato. Ha raccontato di essere stato «inondato di chiamate» da parte di governi stranieri desiderosi di trattare, di avere esercitato «pressioni senza precedenti», di aver spinto al massimo «la leva negoziale». Ma alla fine, dietro il sipario delle fanfaronate, c’è solo la paura: quella che fa tremare anche il più arrogante dei presidenti quando Wall Street fa evaporare trilioni e inizia a svendere il debito americano.
Il risultato è un documento presidenziale che gronda retorica e imbarazzo. Trump, con tono da imperatore magnanimo, autorizza una pausa. Parla di tariffe ridotte del 10%, di “forte suggerimento” agli altri Paesi a non reagire. Ma è la Cina, non l’Europa, a sbattergli la porta in faccia, alzando i dazi al massimo storico. E non è la Cina a dover salvare la faccia: è lui. Perché, nel frattempo, il dollaro si svaluta, le Borse crollano, i bond si deprezzano e il mondo intero inizia a intravedere lo spettro di un nuovo cigno nero.
E come finisce questa tragicommedia? Con l’ennesimo messaggio da boomer su Truth: “Stiamo calmi! Andrà tutto bene!”. Poi l’annuncio del dietrofront, e subito il mercato ruggisce. Wall Street lo perdona, per ora. Ma il patto è chiaro: niente più colpi di testa. L’unica pantofola che Trump può aspettarsi di vedere baciata è la sua, mentre lui è in ginocchio davanti alla finanza.
La verità, nuda e crudele, è che ogni volta che si gioca col fuoco della guerra commerciale globale, i primi a scottarsi non sono i partner stranieri, ma gli Stati Uniti stessi. E allora Donald Trump smette di fare il macho e si piega. L’America First? Solo uno slogan. Quando brucia il portafoglio, anche il più muscolare dei populisti si inginocchia davanti a Wall Street.