
NEW YORK – Un giorno è il paladino del popolo, il giorno dopo il profeta dei mercati. Poi torna a fare l’iconoclasta dei dazi, per diventare infine il devoto servitore di Wall Street. Donald Trump, rieletto presidente degli Stati Uniti, si conferma per ciò che il mondo ha ormai imparato a conoscere (e temere): un tornado di decisioni contraddittorie, capace di invertire la rotta più in fretta di una Tesla impazzita su una rotatoria.
Questa settimana, la Casa Bianca ha vissuto l’ennesimo capolavoro del genere: mentre il segretario al Commercio spiegava in aula perché i dazi fossero un dono del cielo, Trump twittava (in maiuscolo, ovviamente) che andavano aboliti immediatamente. Perché? Perché lo ha detto Elon Musk, o forse perché lo ha sognato. In fondo, chi può davvero saperlo? Nemmeno Trump, probabilmente.
Il suo governo, ormai diventato un talent show permanente, vive nella tensione continua fra “L’Apprendista” e “Beautiful”, con ministri che apprendono di essere stati silurati da X (ex Twitter), e ambasciatori che scoprono nuovi incarichi grazie ai meme condivisi da influencer del Midwest.
In tutto questo, Trump non sbaglia mai. Sono gli altri che non capiscono. Se Wall Street crolla, è colpa dei “globalisti codardi”. Se Pechino si indispettisce, è colpa del tè verde. Se l’euro prende il largo sul dollaro, è solo una cospirazione dell’Unione europea, “quella roba vecchia fatta da tedeschi con la frangetta e i francesi con l’accento”.
E quando finalmente si decide, lo fa con l’eleganza di un elefante in un Apple Store. Sconfessa le proprie scelte come se fossero state di qualcun altro (“non l’ho detto io, era una battuta!”), e lascia che sia un esercito di podcaster, influencer del curling, e commentatori con cappellini MAGA a spiegare al mondo cosa intendeva davvero.
Perché Trump è così: imprevedibile, improvvisato, imperituro. L’unico uomo che può citare Hannibal Lecter a un G7 e uscirne lodato dalla Fox News come “un pensatore originale”. Ma al tempo stesso incapace di dire con certezza se preferisce i dazi o gli sconti al supermercato.
Il caos, però, non è un effetto collaterale. È la strategia. Ogni giravolta, ogni inversione a U, ogni “non ricordo di aver detto questo” è un mattone nell’edificio della sua politica. Una torre traballante, sì, ma sempre in costruzione, come un casinò a Atlantic City mai inaugurato.
Il mondo osserva, trattiene il fiato, e chiede: chi governa davvero? La risposta è chiara: nessuno lo sa, nemmeno lui. Ma finché Trump sarà alla guida, possiamo stare certi di una cosa sola: la rotta sarà variabile, la voce sarà urlata, e il caos sarà assicurato.