
Come ha scritto Francesco Verderami sul Corriere della Sera, «da atlantista ed europeista, Mario Draghi confida che la tregua tra le due sponde dell’oceano si trasformi in un’intesa». Perché la guerra commerciale, se davvero esplodesse, travolgerebbe l’Occidente intero. Non è una semplice tensione doganale: la politica dei dazi rilanciata da Trump, sottolinea Verderami, «si configura come un passaggio epocale», paragonabile agli accordi di Bretton Woods, alla crisi di Lehman Brothers, all’emergenza Covid. C’è chi l’ha vista come una minaccia (e lo è), ma le ultime mosse del presidente Usa stanno producendo un effetto collaterale interessante: il risveglio dell’Europa. Non di soprassalto, certo. Parliamo di quella lentezza irritata di chi ha sentito la sveglia suonare, l’ha spenta, ma poi si è reso conto di non poter più restare a letto.
Del resto, l’ex presidente del consiglio italiano Mario Draghi, nel suo rapporto sulla competitività consegnato mesi fa a Bruxelles, è stato chiaro: non serve una risposta muscolare, ma un cambio di passo. L’Europa è ingessata da un sistema regolatorio e burocratico che frena più dei dazi stessi. E se l’UE intende restare un attore globale, deve agire su difesa, energia, innovazione e sicurezza come se fosse un soggetto unico, non ventisette voci dissonanti. Oggi, in campo tecnologico e industriale, siamo il fanalino di coda. Le startup, diciamolo chiaramente, crescono altrove. Le decisioni strategiche pure. L’illusione di poter restare neutrali tra le potenze rischia di portare all’irrilevanza.
Trump non è certo un campione del multilateralismo, ma stavolta la sua provocazione potrebbe funzionare come detonatore. Il punto non è accontentarlo, tantomeno “tenerselo buono”, come sostiene qualche politico italiano. Il punto è che l’Europa non può più permettersi di restare ferma. Quindi, se la minaccia dei dazi può farci capire che non possiamo più dormire, ben venga anche la scossa. Purché, stavolta, ci si alzi davvero.
A proposito della Cina, Trump ha dichiarato recentemente: «Sono sempre andato d’accordo con Xi e penso che verrà fuori qualcosa di positivo con la Cina». Un’affermazione che riflette un cambiamento di tono rispetto alla durezza delle precedenti politiche commerciali. Parlando dei dazi imposti a Pechino, il Tycoon ha sottolineato che le trattative in corso con molti Paesi pongono gli Stati Uniti in una «buona posizione». Lo stesso presidente Usa ha affermato pure che tratterà con l’Unione Europea per i dazi come un blocco unico e non con i singoli Stati. A questo proposito, come ha scritto Verderami, ora gli sforzi devono concentrarsi per scongiurare la guerra commerciale tra il Nuovo e il Vecchio continente, evitando il ricorso ai controdazi, che potrebbero aggravare i problemi economici e allargare ulteriormente la distanza tra le due sponde dell’Atlantico, fino a renderla quasi incolmabile. «I margini per un appeasement ci sono. D’altronde sono molti i motivi che hanno spinto Trump ad annunciare la tregua con l’Europa: il crollo delle borse, la perdita di forza del dollaro, l’aumento del costo del debito pubblico. Ma anche la ferma posizione assunta dalla Federal Reserve e dal suo presidente Powell, che ha saputo finora tener testa alle pressioni della Casa Bianca ed è apprezzato per il modo in cui sta assolvendo al suo mandato», ha spiegato il giornalista sul Corriere della Sera.
Intanto, la politica estera italiana si sta muovendo sul filo della diplomazia: la premier Giorgia Meloni è attesa a Washington il 17 aprile. La missione, ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è una risposta concreta agli sviluppi recenti, con l’obiettivo di «rinforzare il dialogo non solo fra Italia e Usa, ma fra Ue e Usa». Un invito che arriva in un momento cruciale, con la consapevolezza che l’Europa non può più ignorare il pericolo di restare emarginata in un mondo sempre più polarizzato. Il viaggio della Meloni non è che un primo timido passo, ma ogni cambiamento è iniziato così. E chissà che come mediatore tra Usa e Europa non venga designato alla fine proprio Mario Draghi. La sua visione pragmatica e la sua esperienza politica potrebbero rivelarsi determinanti in un momento in cui il confronto transatlantico è più necessario che mai.