
C’è chi lo definisce imprevedibile, chi lo accusa di improvvisare, chi lo immagina come un tycoon irascibile che governa a colpi di tweet. Insomma, uno un po’ fuori di testa. E che sia originale, non c’è dubbio. Ma dietro all’apparente disordine della politica commerciale di Donald Trump, c’è – come scrive il Washington Post – un quadro sempre più chiaro. E non è quello di un pazzo.
È quello di un Presidente con un obiettivo preciso: riplasmare l’ordine economico globale a favore degli interessi americani. Altro che gaffe e follia: Trump sa benissimo cosa vuole ottenere. E lo chiede con la brutalità di chi non accetta compromessi.
La fine della globalizzazione e il “fortino americano”
Il mondo occidentale ha cannibalizzato la sua stessa classe media, e ha creato una stirpe di privilegiati che possiedono un potere sconfinato: denaro, monopolio, influenza politica nascosta al pubblico. Ma è un castello fragile e che non può reggere per sempre. Il rischio di una ribellione è alto. E anche questo Trump, a capo di un’America mai così divisa e sfilacciata, lo sa bene.
La globalizzazione si è rivoltata contro chi l’aveva avviata in modo prepotente e irresponsabile. Trump lo ha capito da tempo: la giostra si è fermata, l’America è più debole. Il sogno americano è un’ombra nella nebbia. La delocalizzazione ha distrutto il tessuto industriale e gli Usa stanno perdendo la loro leadership.

Quindi, la soluzione è riportare il lavoro a casa, riavviare un circuito virtuoso che favorisca i consumi interni e le esportazioni. Un’America autarchica che, forte del proprio predominio in molti campi sia di nuovo in grado di dominare il mondo: ma stavolta dall’interno di un fortino blindato.
Le richieste-chiave: dazi, gas, Silicon Valley e agricoltura
Ed è seguendo questo disegno che Trump stende la sua rete. La comunicazione strampalata e piena di eccessi e momenti incomprensibili è perfetta per la nostra società: e infatti tutti pendono dalle labbra del Presidente, il mondo intero aspetta le sue mosse. Secondo il Washington Post, la Casa Bianca, pur tra esitazioni e silenzi tattici, sta mettendo sul piatto richieste chiare e pesanti:
- Più acquisti di gas naturale americano da parte dei partner esteri;
- Riduzione dei dazi su prodotti made in USA;
- Stop alle imposte europee sulle Big Tech della Silicon Valley;
- Misure contro la triangolazione cinese (cioè l’invio di merci attraverso Paesi terzi per aggirare i dazi);
- Esenzioni temporanee per le case automobilistiche penalizzate dalle tariffe del 25%.
Tutto questo non è anarchia negoziale. È un’agenda, dura e spigolosa, che intende spostare l’ago della bilancia verso l’economia americana. Soprattutto verso la sua manifattura, i suoi colossi tecnologici, le sue risorse energetiche. E, non da ultimo, verso i suoi agricoltori.
La vera domanda: cosa vuole davvero Trump dal resto del mondo?
Non vuole solo più carne venduta in Europa o meno regole sulla privacy per Facebook e Google. Vuole una cosa molto più grande: essere il punto di riferimento obbligato dei rapporti commerciali globali. Nel suo disegno, gli Stati Uniti non sono più il garante del libero scambio. Sono il creditore principale del mondo.

E il resto del pianeta deve pagare: in gas, in apertura dei mercati, in rispetto delle regole americane. La Cina è nel mirino, le furbizie commerciali (e non solo) di Pechino non saranno più tollerate. L’Europa non può continuare a tassare Apple e a imporre l’Iva (che per Trump è nient’altro che un dazio mascherato) mentre esporta prodotti in America, compra gas dalla Russia e fa affari con la Cina.
Ecco la logica: finora vi abbiamo protetti, anche e soprattutto con il nostro ombrello militare. Ora questa protezione si paga, anche per il passato. Quindi o negoziate con noi, oppure vi sbatto fuori dal mercato americano. Non è diplomazia classica. È realpolitik commerciale in chiave trumpiana, è una strategia aziendale aggressiva ma chiara.
Il caos calcolato come strumento
Il Washington Post racconta anche le difficoltà operative: negoziatori europei, indiani e giapponesi che non sanno con chi parlare, interlocutori che cambiano, ambiguità volute. Ma non è un difetto, è parte del metodo. Il caos, in questo schema, è uno strumento. Fa parte del prezzo che Trump impone per entrare nel gioco. Se vuoi trattare con gli Stati Uniti, devi accettare di giocare secondo le sue regole, anche se non te le spiega subito.
E intanto il Presidente Usa è su tutti i giornali, in tutte le televisioni, nei pensieri di tutti i politici del mondo. Da un punto di vista comunicativo è un successo incredibile, e non importano le critiche: l’importante è che la sua immagine sia già dominante, come vorrebbe che tornasse a essere l’America. Altro che fuori di testa. Trump sta ribaltando il mondo: che poi ci riesca o no, sarà la storia a dirlo.