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“Mi amo troppo per stare con chiunque”: perché dovremmo smettere di criminalizzare l’autonomia femminile

Pubblicato: 15/04/2025 16:44

Nel vortice delle opinioni che rimbalzano sui social e in certi editoriali, una frase come “mi amo troppo per stare con chiunque” è stata recentemente etichettata come un sintomo di individualismo estremo e disconnessione affettiva, una bandiera dell’autoesaltazione che, a detta di alcuni, minerebbe il tessuto delle relazioni umane. Eppure, in questa stessa frase, c’era l’essenza di ciò che Sara Campanella cercava di affermare: il diritto alla propria autodeterminazione affettiva, alla libertà di scegliere chi amare — o di non amare affatto.

Sara Campanella non è morta per colpa di un’ideologia solitaria o per una cultura narcisistica dell’io. È stata uccisa perché un uomo ha rifiutato di accettare il suo rifiuto. Stefano Argentino, il suo assassino, ha trasformato quel rifiuto in ossessione, e quell’ossessione in violenza. L’idea che la frase “mi amo troppo per stare con chiunque” sia da leggere in chiave patologica capovolge la realtà: quella frase non era una barriera all’amore, ma una dichiarazione di confine, un no fermo a chi non sapeva accettarlo.

La provocazione di Marcello Veneziani

A scatenare la polemica ed a scrivere che la frase bandiera di Sara Campanella sarebbe la prova del suo individualismo è Marcello Veneziani, sul suo blog. Lo scrittore oggi attacca quel tipo di affermazione, lo fa spesso sostenendo che alimenti “egoismo relazionale” o persino “femminismo tossico”. In realtà, è proprio l’insofferenza verso l’autonomia femminile a essere tossica. Lo dimostra in maniera sinistra l’intera narrativa incel, dove il rifiuto da parte di una donna è visto come una colpa morale, una dimostrazione di “cattiveria”, di “superiorità” o di “egoismo”. Ma non amare qualcuno non è un atto violento, mentre pretendere l’amore è già una forma di dominio.

In questa visione distorta — che argina il diritto di dire no — l’autodeterminazione femminile viene sistematicamente confusa con la superbia, e le vittime diventano quasi colpevoli di essersi affermate. Quando si afferma che frasi come quella di Sara Campanella siano un “segno dei tempi” da criticare, si sta, magari involontariamente, minando il valore del consenso. Perché se amare sé stesse diventa sospetto, allora anche non acconsentire può esserlo.

Eppure, è proprio questa autonomia che va protetta con forza: il diritto di Sara di scegliere la propria vita, la propria solitudine, o un amore che non fosse invischiato nella violenza del possesso. Il suo assassinio, come tanti altri, non è l’effetto di un femminismo “esasperato”, ma della persistente incapacità di alcuni uomini di accettare l’indipendenza emotiva delle donne.

Ogni volta che si prova a “riequilibrare” il dibattito chiedendo di non “usare i femminicidi per armare il femminismo”, si cade in un tranello retorico pericoloso: si svuota di senso politico la violenza di genere e si depotenziano le sue cause strutturali. Parlare di femminicidio non significa strumentalizzare: significa riconoscere un sistema. E denunciare come quella violenza sia la conseguenza ultima di un’idea di relazione che nega all’altra persona la libertà di esistere senza appartenerci.

Sara Campanella si amava abbastanza da non volere accanto a sé “chiunque”. Aveva ogni diritto di dirlo. E aveva il diritto di vivere abbastanza a lungo da dimostrarlo ogni giorno.

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Ultimo Aggiornamento: 15/04/2025 16:54

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