
Bologna – È una storia di ribellione e di libertà negata, quella di Saman Abbas, che ha scosso il Paese ben oltre i confini della provincia emiliana dove si è consumata la tragedia. Una ragazza di appena diciotto anni, cresciuta tra due culture, che aveva scelto di vivere secondo i propri desideri, rifiutando un matrimonio combinato e rivendicando il diritto di autodeterminarsi. Una scelta che le è costata la vita, in una spirale di violenza familiare che si è trasformata in omicidio premeditato.
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La sua scomparsa nella primavera del 2021 aveva subito fatto temere il peggio. Le indagini, le ricerche nel fango dei campi attorno alla casa di famiglia a Novellara, il lungo silenzio, e infine il ritrovamento del corpo sepolto in un casolare abbandonato, hanno segnato uno dei casi più drammatici e simbolici degli ultimi anni in Italia. Un caso che ha posto al centro del dibattito pubblico il tema della protezione delle giovani donne straniere che vivono situazioni familiari oppressive.

Ora la Corte di Assise d’appello di Bologna ha condannato all’ergastolo i genitori e i cugini della giovane pachistana. Sono state riconosciute per tutti le aggravanti generiche. Lo zio, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio, è stato condannato a 22 anni di carcere.
La Procura generale aveva chiesto l’ergastolo per tutti e cinque gli imputati. In primo grado, i genitori erano già stati condannati all’ergastolo, lo zio a 14 anni e i cugini erano stati assolti. La sentenza di appello ribalta ora quella decisione, ampliando la responsabilità penale a tutto il nucleo familiare coinvolto.
Un verdetto che chiude, almeno in sede giudiziaria, una vicenda che rimane una ferita aperta. Perché Saman, con la sua morte, ha lasciato un vuoto che nessuna condanna potrà colmare. Ma ha anche acceso un riflettore necessario su storie di controllo e violenza che troppo spesso restano sommerse.