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Racconto di Pasqua. Un bambino, una donna, e l’eco della resurrezione sotto le macerie

Pubblicato: 20/04/2025 08:46

La campana dell’alba non suonava più da mesi. Rubata, forse. O fusa per diventare qualcosa che uccide. Le chiamano requisizioni, ma Agnese sapeva bene cosa significava quando venivano a prendersi anche le cose che suonano, che cantano, che ricordano. Era il segno che la guerra aveva fame. E non di pane.

Eppure, quella mattina di Pasqua, la vecchia si svegliò lo stesso all’ora in cui un tempo rintoccava. Era un risveglio istintivo, nonostante il silenzio. Un gesto del corpo, come quelli degli animali nei boschi. Si sollevò piano dal letto, con le ossa che scricchiolavano come legno d’inverno, e andò a cercare l’acqua per lavarsi il viso. La brocca era ghiacciata. Il secchio, vuoto. Si sciacquò con un fazzoletto umido e si avvolse nello scialle blu, quello con il bordo ricamato da sua madre durante la guerra del ’15. Era tutto ciò che le restava delle donne della sua stirpe.

Fuori, la città era in silenzio. Ma non era pace. Era attesa, come quella che precede una sentenza. L’aria odorava di fuliggine e intonaco spaccato. I vetri delle finestre erano ormai un ricordo, sostituiti da cartoni, assi inchiodate e croci di nastro. C’erano crepe nei muri, e ferite nei muri, e muri che non c’erano più. Ma c’erano le rondini. Davvero. Due, tre, che tagliavano il cielo con il loro volo impaziente. Dio ha mandato le rondini, pensò Agnese. E questo era già un segno.

Camminò a passi lenti verso la chiesa. Sapeva che non ci sarebbe stata messa. Il parroco era morto sotto un bombardamento, e la navata aveva perso il tetto. Ma i muri erano ancora in piedi. E le pietre, pensava lei, sono come certi uomini: non si piegano. Sedette su una pietra che un tempo era il secondo gradino dell’altare, e tirò fuori dal grembiule un uovo sodo avvolto in un fazzoletto. Lo aveva nascosto per giorni tra le patate, per tenerlo al sicuro. Era il suo uovo di Pasqua.

Fu allora che lo vide. Un bambino. Solo. Rannicchiato contro l’abside annerita, lì dove un tempo pendeva il Crocifisso. Avrà avuto otto anni, forse dieci. I capelli impastati di polvere, gli occhi larghi come quelli dei piccoli animali feriti. Non parlava. Solo la guardava. Ma negli occhi aveva qualcosa di più vecchio della guerra. Aveva la fame di essere visti.

Agnese si avvicinò senza parole. Spezzò l’uovo in due con le dita nodose, e gliene offrì la metà. Il bambino la prese. Lo mangiò in silenzio, mordicchiando piano, come se temesse di svegliare qualcosa. Poi si rannicchiò accanto a lei, senza toccarla. Solo vicino. Come un’ombra che cerca il calore.

Un tuono lontano fece tremare la terra. Non era il cielo. Era il fronte. Ma Agnese non mosse un muscolo. Si fece solo il segno della croce e sussurrò: Resurrezione, Signore. Resurrezione. Il bambino la imitò, goffamente. Poi prese dal taschino un fiore secco — un pezzetto di margherita, o qualcosa che un tempo era stato vivo — e glielo mise sul grembo. Nessuno dei due sorrise. Ma si capirono.

Restarono così, senza parlare, fino a che il sole cominciò a filtrare da ciò che restava delle vetrate. Lì dove un tempo i santi brillavano nei vetri colorati, ora brillava solo la polvere. Ma bastava. Bastava per dare un senso alla luce.

Più tardi, quando Agnese si alzò per tornare a casa, il bambino si alzò con lei. Non la prese per mano. Ma le camminò accanto. Come si cammina con qualcuno che non si conosce, ma che si è riconosciuto.

Ecco cos’era stata, quella Pasqua. Niente messa, niente campane, niente risurrezione trionfale. Solo un uovo. Un fiore. E due solitudini che avevano deciso, senza dirlo, di non essere più sole.

Anche nel tempo della paura. Anche nel tempo della guerra.

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