
Jorge Mario Bergoglio non è stato solo il primo Papa gesuita della storia, il primo a scegliere il nome di Francesco, il primo sudamericano sul soglio pontificio. È stato molto di più: è stato il primo a farsi vicino. A scendere dalla cattedra di San Pietro per sedersi accanto ai fedeli. Il primo a lavare i piedi a donne e musulmani. Il primo a dire, con disarmante semplicità: «Chi sono io per giudicare?». È stato il Papa che ha rotto il silenzio col silenzio, infrangendo protocolli e tradizioni antiche: quel caloroso «Fratelli e sorelle, buonasera» arrivò come una carezza ad una Chiesa smarrita. Scelse di vivere a Casa Santa Marta, rifiutò mozzette e ori, mise al centro non il potere, ma la misericordia. Sotto quella bianca talare si nascondeva un cuore che batteva forte per gli ultimi, per i dimenticati, per chi si era sempre sentito ai margini.
Papa Francesco è stato in grado di far sorridere tutti, anche Dio. Eh sì, perché in dieci anni di pontificato, Bergoglio ha saputo essere incredibilmente umano. A volte ironico, a volte tenero, sempre diretto. Come quando, dimenticandosi un discorso in Georgia, esclamò con fare paterno: «Tanto Dio capisce». Attento da sempre alle nuove generazioni, disse: «I sogni dei giovani sono i più importanti di tutti». Una volta un bambino gli rubò lo zucchetto. Lui non si scompose, rise di gusto. Era così Papa Francesco. Capace di grandi parole e di piccoli gesti che valevano più di mille encicliche.
È stato anche il Papa dei primati. Il più seguito sui social, il più vicino alle periferie, il più determinato nel riformare la Chiesa dal di dentro. Ha autorizzato docce e barber shop per i senzatetto sotto il colonnato del Bernini. Ha aperto la Porta Santa non a Roma, ma a Bangui, in una terra ferita dalla guerra. Ha chiesto perdono a nome della Chiesa ad indigeni, a vittime di abusi, ad intere comunità ferite dal passato. Ha fatto più viaggi apostolici internazionali di qualunque altro pontefice: 44 Paesi in dieci anni, toccando luoghi dimenticati e simbolici come l’Iraq, il Sud Sudan, Cuba, Myanmar, il Giappone post-Fukushima. È stato il primo Papa ad entrare in una moschea durante la guerra, a volare in Islanda, a visitare la penisola arabica. Sempre in mezzo alla gente, fino alla fine, anche quando la malattia lo aveva fiaccato nel corpo ma non nello spirito.
Papa Francesco ha affrontato scandali, guerre, pandemie, solitudini globali. Con le mani nude. Senza armature. Con la sola forza di chi crede davvero che la fede debba servire, non comandare. Ora che è tornato alla casa del Padre, nel cuore dell’Anno Santo, la sua morte non interrompe il cammino: lo trasfigura. La speranza dovrà imparare a camminare da sola, ma potrà farlo: perché Papa Francesco ha tracciato il sentiero, con ogni passo, ogni abbraccio, ogni parola scomoda detta con coraggio.
«Pregate per me», sussurrava sempre il Santo Padre, alla fine di ogni discorso. E lo diceva con gli occhi lucidi, come chi sa che, per quanto grande sia il ruolo, restiamo tutti fragili. Tutti fratelli. Tutti in cammino. Bergoglio, che scelse il nome del Poverello di Assisi, simbolo di povertà, umiltà e di amore sconfinato per tutti gli esseri del Creato, ci lascia un’eredità profonda, che neppure la morte può spezzare: sopravvive a Papa Francesco una Chiesa che respira più forte; ci resta in queste ore di preghiera e dolore l’immagine di un pastore che sapeva ascoltare. E ci consegna, più che un ricordo, una mancanza già colma di immensa gratitudine.