
La sera del 13 marzo 2013, Roma era avvolta da una pioggia fitta e da un’attesa carica di tensione. Alle 19.06, dalla Cappella Sistina si alzò la fumata bianca. Pochi minuti dopo, il cardinale protodiacono Jean-Louis Tauran annunciò al mondo: “Habemus Papam”. Il nome che seguì fu una sorpresa assoluta: Jorge Mario Bergoglio. Un nome mai circolato tra i favoriti, uno sguardo nuovo, un’origine inattesa. Ma fu solo quando il nuovo pontefice si affacciò dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro che il mondo comprese di essere di fronte a qualcosa di totalmente inedito.
Non alzò le braccia al cielo, non benedisse subito la folla, non si mostrò trionfante. Ruppe il protocollo con una semplicità disarmante. Disse “buonasera”, con la naturalezza di un parroco di campagna, e lasciò per lunghi secondi che il silenzio parlasse. Prima ancora di parlare di Dio, volle parlare alla gente. Disse: “Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”. La frase, detta con un sorriso timido e accento argentino, fece il giro del pianeta. Il primo papa latinoamericano, il primo gesuita, il primo Francesco.
Il silenzio che cambiò tutto
Poi venne il gesto che, ancora oggi, molti considerano il segno più profondo di quella serata: anziché impartire subito la benedizione apostolica Urbi et Orbi, Papa Francesco chiese alla folla di pregare per lui. Si chinò e restò in silenzio, mentre la piazza si faceva muta. Un uomo che chiedeva, prima ancora di dare. Un papa che si inchinava prima di benedire. In quel momento cambiava il tono, lo stile, il linguaggio del papato.
Da quella loggia non scese un sovrano, ma un pastore. Non un principe, ma un servo. Quella sera, tutto parlava di una svolta: il nome, lo stile, l’impostazione. Non scelse le vesti papali più ornate, non indossò la mozzetta di ermellino, non mise la croce d’oro ma quella semplice di ferro che portava da vescovo. Anche questi dettagli dicevano molto. Il messaggio era chiaro: sarebbe stato un papa vicino, diretto, essenziale.
L’inizio di una nuova grammatica
L’elezione di Francesco arrivava dopo la clamorosa rinuncia di Benedetto XVI, in un momento di crisi profonda della Chiesa. Gli scandali, le divisioni interne, la disaffezione di tanti fedeli avevano scavato un solco doloroso. Francesco, con quel primo affaccio, non prometteva soluzioni, ma mostrava un’altra postura. Non avrebbe risolto tutto con l’autorità, ma si sarebbe messo in cammino.
Il papa che parlava con accento argentino era già, in quel primo discorso, il pontefice delle periferie. Un vescovo di Roma che si rivolgeva prima ai romani e poi al mondo. Nessuna rivendicazione, nessuna costruzione solenne. Solo la scelta di un linguaggio diverso, che metteva al centro l’umano.
Un’icona istantanea
Quella sera del 13 marzo 2013 è già storia. È diventata un’icona della modernità ecclesiale: l’immagine di un uomo solo, semplice, che si affaccia per la prima volta al mondo e dice: “Preghiamo insieme per me, e per il cammino della Chiesa”.
Nessuna costruzione teatrale, nessun artificio comunicativo. Solo un volto nuovo, uno stile disarmante, una voce calda. Un papa che da subito ha fatto sentire la sua umanità. E che da quel balcone, con una parola e un gesto, ha aperto un’epoca.