
La Basilica è immensa, ma oggi sembra respirare piano, come un petto stanco che si solleva per l’ultima volta. C’è una sospensione nell’aria che non è solo silenzio: è presenza. Come se, nel cuore di Roma, si fosse aperta una fenditura nel tempo. Qui dentro, mentre il giorno si consuma lentamente oltre le vetrate, il mondo sembra essersi fermato per inchinarsi davanti a un uomo che ha voluto essere fratello prima che sovrano.
Una bara semplice, un messaggio universale
Il corpo di Papa Francesco giace in una bara semplice, su un piano di legno nudo. Nessun trono, nessun ornamento regale, nessuna barriera tra lui e la gente. Ha voluto così. Il volto è disteso, come se fosse assorto in un pensiero sereno, o stesse ancora ascoltando. Quel volto che, per più di un decennio, ha guardato l’umanità senza giudizio, con la dolcezza severa di chi sa che il cuore di Dio batte dove l’uomo ha paura di guardare.
Intorno, la folla scorre lenta come un fiume antico. Giovani, anziani, suore, operai, prelati, bambini che si aggrappano ai vestiti delle madri. Ognuno lascia qualcosa: uno sguardo, una lacrima, un pensiero inudibile. Ognuno riceve qualcosa in cambio: un frammento di pace, il senso del sacro, forse il perdono.

Nostalgia del bene
Non c’è dolore gridato qui. C’è nostalgia del bene. Di un bene che ci è passato accanto con sandali consunti e un’attenzione infinita ai piccoli. Papa Francesco non è stato un dogma vivente. È stato un uomo che, parlando a tutti, ha ricordato alla Chiesa che il Vangelo cammina con i piedi sporchi della strada, non sopra i marmi del potere.
Ora che il suo volto si prepara a sparire agli occhi del mondo, mentre le mani dei cerimoniari si avvicinano alla bara per sigillarla, c’è un attimo che sembra eterno. Un ultimo scambio muto fra lui e il popolo. Un testimone invisibile passa da un corpo inerte a milioni di coscienze vive. È la responsabilità dell’amore, che non muore mai davvero, e che chiede di essere custodito, non ripetuto.

Un’eredità vivente
La luce si abbassa, filtrando dall’alto come una benedizione che non viene dall’esterno, ma nasce dal dentro. E in quell’attimo, mentre la pietra della Basilica sembra trattenere il respiro, molti capiscono che non si sta chiudendo una bara: si sta aprendo un’eredità.
Un’eredità che non è fatta di testi, ma di gesti. Di ponti, non di troni. Di sguardi dati agli ultimi, di carezze ai lebbrosi del nostro tempo, di parole che hanno ferito e consolato come il bastone di un pastore buono.
La fine di un cammino, l’inizio di un seme
Francesco non c’è più. Ma c’è. Perché ha camminato tra noi senza mai staccare i piedi da terra. Perché ci ha mostrato che il potere più grande è disarmarsi. Perché ci ha detto, senza stancarsi, che la misericordia è il nome segreto della giustizia.
Ora i battenti si chiuderanno. La bara scenderà nel grembo della terra, o in quello di una chiesa. Ma non è un addio. È un seme. Un seme che aspetta mani coraggiose per fiorire ancora. E in quel silenzio finale che avvolge San Pietro, è come se una voce sussurrasse da dentro la pietra: “Non guardate me. Guardate dove vi ho indicato.”
E allora sì, possiamo dire: è morto un Papa, ma si è alzato un padre.