Parafrasando “Gomorra – La serie”, si dice che “il terremoto è volere di Dio“, un’espressione carica di fatalismo ma anche di profonda fede nella volontà divina. Non si tratta solo di vedere la distruzione come un castigo o un avvertimento, ma anche di riconoscere che, attraverso eventi sconvolgenti, Dio può parlare agli uomini, scuotere le loro coscienze, spingerli a cambiare.
Così, in questi giorni segnati dal lutto per la morte di Papa Francesco, alcuni leggono la coincidenza di eventi globali come un vero e proprio “terremoto spirituale“: una scossa mandata dall’alto per richiamare l’umanità al suo destino di pace.
I funerali del Santo Padre si trasformano in qualcosa che va oltre l’addio a una grande figura religiosa. Piazza San Pietro, gremita di leader politici, religiosi e semplici fedeli provenienti da ogni parte del mondo, diventa il crocevia di una nuova speranza. In un mondo lacerato da conflitti, guerre e divisioni, proprio la morte di Papa Francesco offre l’occasione per un incontro raro: Donald Trump e Volodymyr Zelensky, due simboli di tensioni globali, si ritrovano a condividere lo stesso spazio, lo stesso silenzio, lo stesso momento di riflessione.
La presenza di Trump e Zelensky ai funerali non è soltanto protocollo diplomatico. È il segnale di un’esigenza più profonda: quella di trovare un terreno comune, anche solo per pochi istanti, nel nome di qualcosa di più grande di loro, più grande della politica, più grande della storia stessa.
La morte di Francesco: una chiamata alla riconciliazione
Papa Francesco, durante tutta la sua vita, si batte contro l’indifferenza, l’odio e l’ingiustizia. In ogni viaggio, in ogni gesto, in ogni omelia, grida al mondo la necessità di abbattere i muri e costruire ponti.
Ora che la sua voce si spegne, paradossalmente il suo messaggio diventa ancora più forte, più urgente. La sua morte non è solo la fine di un pontificato: è una chiamata universale alla riconciliazione.
Il funerale stesso diventa simbolo di questo bisogno. Capi di Stato che fino a ieri non si parlavano, oggi siedono uno accanto all’altro. Le tensioni geopolitiche, pur non scomparendo, sembrano per un momento rallentare, sospese in una tregua silenziosa e carica di significato. Nel loro incontro, nelle strette di mano, negli sguardi sfuggenti ma densi di emozione, si intravede qualcosa di raro: la consapevolezza che esiste un bene superiore, che c’è un valore più grande delle alleanze o delle rivalità.
In questo senso, la morte di Papa Francesco appare davvero come un atto della Provvidenza: un invito a cambiare strada, a fermare la corsa verso il baratro, a rimettere al centro la dignità dell’uomo e il desiderio di pace.
Sebbene sia improbabile immaginare che un funerale possa, da solo, cambiare la politica internazionale, il valore simbolico di quello che accade a Roma è enorme. Donald Trump, ex presidente degli Stati Uniti, simbolo di un nazionalismo muscolare e divisivo; Volodymyr Zelensky, leader di un’Ucraina martoriata dalla guerra, paladino della resistenza contro l’invasione russa: due uomini, due mondi, due visioni che si scontrano sulla scena globale.
Eppure, davanti al feretro di Francesco, tutto si ridimensiona. Le bandiere, le strategie, i rancori, si sciolgono per un istante nella comune umanità. Le immagini che arrivano da Piazza San Pietro parlano di sguardi incrociati, di gesti rispettosi, di un silenzio che vale più di mille parole. È un momento fragile, certo. È un miracolo effimero, forse. Ma è reale.
Anche gli altri leader presenti, dai presidenti europei ai rappresentanti dei paesi africani, asiatici e americani, sembrano cogliere l’importanza di questa tregua spirituale. In molti colloqui informali, nelle parole pronunciate a mezza voce, si avverte il desiderio di un cambio di rotta. Non solo per onorare la memoria di Francesco, ma per rispondere a quella voce invisibile che sembra ancora risuonare tra le pietre antiche della Basilica di San Pietro.