
C’è un altro Mario Draghi, incredibile a dirsi. Ma stavolta parla con accento canadese. Si chiama Mark Carney, ha l’aplomb di un banchiere e il fisico da ex campione di hockey. E oggi, a 60 anni, è l’uomo che potrebbe infliggere a Donald Trump una sconfitta nel campo che l’ex presidente detesta di più: quello della competenza. Lo ha colto con lucidità Antonio Polito nella nuova puntata della rubrica «Palomar»: Carney è la variante nordamericana del modello Draghi. Stessa sobrietà, autorevolezza e rigore. Ma con in più una capacità tutta canadese di scendere in campo col sorriso e col gomito alto, «elbows up», come dicono nell’hockey, lo sport nazionale. Uno slogan attraente diventato anche simbolo della sua campagna.
Un economista, un tecnico, un “uomo delle istituzioni”, per usare una formula a cui oggi si guarda quasi con sospetto, che conquista il consenso senza doversi travestire da influencer. Una strada che l’ex numero uno della Bce Mario Draghi aveva già percorso in Italia, con risultati che ancora oggi fanno discutere, ma che nessuno può liquidare come irrilevanti. Il parallelo non finisce qui. Anche negli Stati Uniti c’è un altro allergico al populismo economico: Jerome Powell, governatore della Fed, rimasto in sella nonostante le pressioni (e gli strali) di Donald Trump. Anche questa volta, come ai tempi di Draghi, a sfidare i populisti non è una nuova ideologia, né un messaggio gridato. È la freddezza dei numeri, la solidità delle scelte, la sobrietà delle parole. Un altro stile, un diverso linguaggio. Un differente modo di fare politica.
Nato a Fort Smith, cittadina dell’estremo Nord-Ovest, figlio di un preside e cresciuto con borse di studio, Carney, come Draghi, ha girato il mondo (Harvard, Oxford, Goldman Sachs) per poi essere prima al timone della Banca del Canada, poi a quello della Bank of England (primo non britannico della storia). Sempre con una missione: mantenere i nervi saldi quando il sistema trema. E infatti è diventato famoso proprio così, domando la crisi finanziaria del 2008 e poi quella del post-Brexit. «Sono l’uomo giusto per tempi di crisi, molto più di quanto lo sia per tempi di pace», ha detto senza troppi fronzoli nella notte della vittoria, arrivando nella TD Place Arena di Ottawa come un centravanti di ritorno.
E che vittoria. Solo poche settimane fa Carney era sceso in campo per guidare i liberali dopo le dimissioni di Justin Trudeau, che lasciava dopo dieci anni logorati da scandali e polemiche. Carney ha preso un partito in caduta libera, sotto di 24 punti nei sondaggi, e lo ha riportato al governo per il quarto mandato consecutivo. Ha battuto Pierre Poilievre, giovane, populista, aggressivo, che per un anno ha cavalcato l’onda dei consensi con lo slogan “Canada First”. Troppo simile a Trump per non spaventare gli indecisi.
Anche perché il nuovo inquilino della Casa Bianca ci ha messo del suo, con il suo solito carico di provocazioni: «Sarete la 51esima stella», ha tuonato il tycoon, promettendo, ad urne ancora aperte, «meno tasse, più armi, industrie quadruplicate». Un post su Truth Social che in Canada è stato letto come un avvertimento, se non una minaccia di annessione mascherata. «Il presidente Trump sta cercando di spezzarci per possederci», ha denunciato Carney nel suo primo discorso da premier, parlando di «tradimento» americano e ammonendo i canadesi: «Il nostro vecchio rapporto con gli Stati Uniti è finito».
Dietro le parole, un’agenda economica molto concreta: Carney ha già incassato l’impegno di tutte le province per eliminare le barriere commerciali interne per resistere meglio ai dazi americani. Non è solo un tecnocrate, è un uomo con PhD a Oxford e la schiena dritta. La sua è stata una vittoria della testa contro la pancia. Un voto ragionato, dunque. Perché in gioco, stavolta, non c’è soltanto la politica interna. Ma un’idea di Canada più inclusivo, indipendente. Per molti, l’unica vera risposta al ritorno di Trump. E così, alla fine, i canadesi si sono messi nelle mani di un banchiere. Come fecero una volta anche gli italiani.