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Tragedia a Catania, il buio oltre il balcone. Le possibili radici psichiche di un gesto estremo

Pubblicato: 30/04/2025 15:39

Quando una madre getta nel vuoto la propria bambina, l’intera società si paralizza di fronte a un gesto che contraddice in modo assoluto ogni istinto, ogni archetipo, ogni idea naturale di maternità. È un atto che sconvolge non solo per la sua violenza, ma per la frattura simbolica che apre nel cuore del patto umano più sacro: quello tra madre e figlio. Per comprenderlo, serve cautela, lucidità e una profonda riflessione sulle possibili dimensioni psicopatologiche, esistenziali e sociali che possono condurre a un evento tanto devastante.
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Psicosi post-partum e collasso della realtà

Una delle ipotesi più frequenti in questi casi è quella della psicosi puerperale, una condizione rara ma gravissima che può insorgere nei primi mesi dopo il parto. Non si tratta di una semplice depressione, ma di un vero e proprio collasso della realtà: deliri, allucinazioni, dissociazione, perdita del senso del tempo e del sé. In questo stato alterato, una madre può interpretare il mondo attraverso schemi completamente distorti, arrivando a percepire il figlio come un pericolo, un’entità estranea o un mezzo per “salvare” l’anima di entrambi. Il gesto estremo può apparirle, nel delirio, come necessario, addirittura salvifico.

Giuseppina Orlando, che nel 2018 lanciò nel Tevere le gemelline di 6 mesi e poi si lanciò a sua volta

Depressione, isolamento e senso di fallimento

Più frequente e meno clamorosa nella sua espressione sintomatica è la depressione perinatale, che può trasformarsi, se non trattata, in una spirale di angoscia silenziosa e invischiante. Una madre sola, priva di una rete affettiva, sotto pressione economica o familiare, può sperimentare un progressivo spegnimento emotivo, un senso di inadeguatezza, di colpa e di fallimento. In questa condizione, la visione del futuro si chiude, il presente diventa una prigione e l’unica via di fuga può apparire, tragicamente, nella distruzione di ciò che si ama di più.

Fattori ambientali e storie di invisibilità

Non si può ignorare il peso del contesto sociale. Alcune donne vivono in condizioni di isolamento estremo, vittime di violenza, dipendenza, abbandono, discriminazione. Il gesto può allora maturare in un contesto di abuso o abbandono psicologico, dove ogni sistema di sostegno è venuto meno. La maternità in questi casi non è vissuta come esperienza di crescita, ma come ulteriore carico insopportabile. Spesso queste storie non vengono viste, ascoltate, riconosciute: madri invisibili, fino al momento in cui esplodono nel modo più drammatico.

Crisi d’identità e trauma irrisolto

C’è infine una dimensione più profonda, e meno trattata: quella del trauma intergenerazionale. In alcune donne, il vissuto di infanzia può aver lasciato ferite mai elaborate: abbandoni, lutti, violenze, mancanze affettive. La nascita di un figlio può riattivare questi vissuti, facendo emergere paure ancestrali, identificazioni pericolose con i propri genitori, una visione cupa e frammentata del sé. Il figlio, in questa ottica, può diventare specchio di un’identità fratturata, inaccettabile, che si tenta di negare o distruggere.

Un gesto senza risposta definitiva

È necessario, di fronte a simili eventi, evitare la tentazione della spiegazione unica o della semplificazione moralistica. Nessuna madre nasce per uccidere. Un gesto così estremo è sempre la punta visibile di una sofferenza profonda, spesso taciuta, negata, ignorata. Solo la giustizia potrà fare chiarezza sulle responsabilità. Ma solo un ascolto profondo, psichico e sociale, potrà aiutarci a prevenirne altri.

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Ultimo Aggiornamento: 30/04/2025 16:18

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