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«Il braccialetto era spento. Così papà ha potuto uccidere mamma»: il racconto atroce di Miriam

Pubblicato: 03/05/2025 08:27

UDINE – «Aiuto! Aiuto!»: sono le ultime parole che Samia Bent Rejab Kedim, 46 anni, è riuscita a pronunciare al citofono prima di essere accoltellata a morte dal marito. Ad ascoltarle è stato il figlio quattordicenne Yousef, che aveva appena fatto ritorno a casa dopo un incontro con il padre. L’uomo, Mohamed Naceur Saadi, 59 anni, in quel momento avrebbe dovuto essere ai domiciliari con il braccialetto elettronico, ma si trovava nel pieno di un permesso temporaneo. Permesso che, come denuncia oggi la figlia Miriam, 21 anni, ha trasformato una misura cautelare in un’occasione letale.

Il racconto della figlia: «Quella mattina ci siamo dimenticate»

«Ne parlavamo sempre. Le dicevo: “In quelle due ore sto con te, sempre”. Ma quella mattina ci siamo dimenticate. Nessuno pensa che tuo padre possa arrivare a tanto», racconta Miriam, madre di una bambina, ancora scossa, mentre ricostruisce al telefono i momenti che hanno preceduto la tragedia. Suo padre era stato condannato a cinque anni e quattro mesi per maltrattamenti e violenza sessuale aggravata nei confronti di Samia, che aveva chiesto la separazione. Ma da un mese era uscito dal carcere ed era in regime di detenzione domiciliare a Monfalcone.

Quel giorno, però, approfittando di uno dei permessi bisettimanali di due ore, Mohamed ha raggiunto la casa della moglie. Il braccialetto elettronico era “in pausa”, come previsto dalle attuali normative, e quindi non tracciava i suoi spostamenti.

«Un’assurdità. Così ha potuto accoltellarla»

«È un’assurdità. Lo controllate quando è in casa, ma non quando esce? Ma allora non sarebbe stato meglio tenerlo in carcere?», si sfoga Miriam. «Io quel braccialetto l’avevo visto. E lui mi aveva detto: “Non farlo toccare a tua figlia, sennò arriva la polizia”». La consapevolezza che quel sistema di controllo non funzionasse fuori dall’abitazione ha colpito la famiglia come un colpo di grazia dopo la tragedia.

Il racconto si fa ancora più cupo quando la giovane ricorda l’ultimo incontro con il padre, appena due giorni prima del delitto, durante un’udienza di divorzio: «A mio marito ha detto: “Ora sei tu che dovrai sostenere la nostra famiglia”. All’inizio non ci ho dato peso. Poi ho capito: era un avvertimento».

Denunce ritirate e segnali inascoltati

Samia aveva denunciato il marito per la prima volta vent’anni fa, ma poi aveva ritrattato. Fino all’ultima denuncia, rimasta ferma solo grazie all’intervento di un colonnello dei carabinieri che l’aveva convinta a proseguire. Aveva paura, ma anche voglia di tornare a vivere. «Attendeva una visita della polizia, mi aveva chiesto di pulire casa. Voleva fare una bella figura», dice Miriam con un filo di voce.

Ora restano le domande. Troppe. Soprattutto una: come è stato possibile che un uomo condannato per violenze così gravi, pur con un braccialetto elettronico, abbia potuto aggirare i controlli e uccidere?

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