
Il 4 maggio 1953, Ernest Hemingway vinse il premio Pulitzer per Il vecchio e il mare. Un riconoscimento atteso, meritato, ma soprattutto simbolico. Perché con quel romanzo breve, più simile ad una preghiera laica che a un’opera di narrativa, Hemingway non tornava solo ad incantare i lettori: si riconfermava maestro assoluto della parola essenziale, cronista dell’animo umano prima ancora che delle guerre.
Prima del romanziere, c’era il giornalista. Uno che imparò a scrivere stando per ore in silenzio, ascoltando, tagliando. A The Kansas City Star, a vent’anni, gli insegnarono una regola che Hemingway avrebbe custodito come un vangelo: «Usa frasi brevi. Usa paragrafi brevi. Usa un inglese vigoroso. Sii positivo, non negativo». Era un taccuino il suo cuore, con le pagine piegate dall’esperienza.
Ma non si nasce miti. Lo si diventa, annotando con lucidità e perizia chirurgica i dettagli di una battaglia, salendo su pescherecci, ubriacandosi con tragicità quasi teatrale, innamorandosi di donne impossibili. Hemingway è stato tutto questo, ma solo. Fu anche uno scrittore che odiava parlare di letteratura, proprio come il suo Santiago non parlava del suo dolore.
Il vecchio e il mare è la storia di un uomo solo. Un pescatore cubano, Santiago, che non prende un pesce da ottantaquattro giorni. Gli altri lo chiamano salao, il più sfortunato dei vivi. Ma lui non si arrende. Salpa all’alba, da solo, e si spinge oltre le correnti. Dopo ore infinite, un marlin gigantesco abbocca alla lenza. Ne segue una lotta epica che dura giorni e notti, tra crampi, febbre, speranza e delirio. Quando infine riesce a legare il pesce alla barca, iniziano gli attacchi degli squali. Santiago combatte fino all’ultimo, ma torna a riva con solo lo scheletro del marlin. Una sconfitta? No, semplicemente una vittoria senza trofei, un trionfo dello spirito su tutto ciò che lo vuole piegare.
Tra le frasi più celebri del romanzo, una sembra uscita direttamente dall’anima di Ernest Hemingway: «Un uomo può essere distrutto, ma non sconfitto». E più avanti, come una carezza che diventa un avvertimento: «Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle le cose belle non succedono». L’autore ci consegna una parabola sulla dignità, la resistenza, la solitudine. E lo fa con una lingua scarna, precisa.
Ci sono curiosità, sì, ma non sono solo note a piè di pagina: sono parte del racconto stesso. Hemingway scrisse il romanzo a Cuba, nella sua amata Finca Vigía, in cima ad una collina tra palme, gatti e bottiglie di rum. Ogni mattina si metteva in piedi davanti alla macchina da scrivere, appuntando sul muro il numero di parole scritte. Una disciplina ossessiva, quasi militare. Era convinto che l’ispirazione si presentasse solo se lo trovava al lavoro.
Il vecchio e il mare era nato come parte di un’opera molto più lunga: raccontava anche l’infanzia di Santiago, le sue lotte da giovane. Ma Hemingway tagliò tutto. Rimase solo l’essenza. La storia del vecchio che non si arrende, del mare che dà e prende, degli squali che arrivano sempre quando hai quasi vinto. Una storia che pubblicò in anteprima Life Magazine, nell’agosto del 1952. Fu un successo immediato. Le edicole si svuotarono. Gli americani, i cubani, gli europei: tutti volevano leggere quella favola marina che sembrava parlare a ciascuno in modo diverso. Tra gli italiani ammiratori dell’opera: Italo Calvino, Giorgio Bassani e Eugenio Montale.
Il Pulitzer arrivò l’anno dopo. E due anni più tardi, nel 1954, anche il Nobel. Un riconoscimento che Hemingway accettò con la voce spezzata, ringraziando in modo commosso: «La scrittura, nel suo meglio, è una vita solitaria». L’Accademia di Svezia motivò il premio così: «Per la sua padronanza dell’arte narrativa, più recentemente dimostrata in Il vecchio e il mare, e per l’influenza che ha esercitato sullo stile contemporaneo».
Negli anni il romanzo ha incuriosito registi e cineasti: nel 1958, il regista John Sturges adattò il racconto di Hemingway con Spencer Tracy nel ruolo del vecchio. La pellicola vinse un Oscar per la miglior colonna sonora. Nel 1999, Aleksandr Petrov realizzò una breve versione animata di Il vecchio e il mare, caratterizzata da uno stile pittorico unico, che nel 2000 si aggiudicò l’Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione. Un’altra versione, Staretzat i moreto (2002), diretta da Petko Spasov, è un adattamento molto libero dell’opera, proveniente dalla Bulgaria.
Anche Woody Allen ha reso omaggio allo scrittore americano nel suo film forse più poetico, Midnight in Paris. Tra i bistrot della Ville Lumière, compare un Hemingway immaginario, tutto sigarette, frasi mozzate e occhi febbrili, che parla di coraggio, di amore, di morte. E sembra dire, a chi sa ascoltare, che la vera e autentica letteratura è quella che fa sanguinare chi si mette davanti alla macchina da scrivere.
Proprio in quel film, giudicato positivamente da critica e pubblico, in una notte senza tempo, un giovane Hemingway dice al protagonista una frase che potrebbe valere come epigrafe per tutta l’opera del giornalista americano: «Io penso che l’amore vero, autentico, crei una tregua dalla morte». Anche questo era Hemingway. Uno che scriveva come si combatte: per sopravvivere, per capire, per lasciare a riva una traccia dell’onda del mare.