
Roberto Saviano torna a raccontarsi con una sincerità lacerante in un’intervista al Corriere della Sera. Lo fa lasciando cadere la maschera del simbolo, dell’intellettuale, del bersaglio politico e mediatico. E si mostra per quello che è: un uomo solo, piegato da una vita che non ha scelto, intrappolato in una prigione senza sbarre ma con muri altissimi, fatti di angoscia, di silenzi, di camere d’albergo e volti estranei. “Ho la sensazione di aver sbagliato tutto”, dice, come chi confessa un delitto a se stesso. Non parla della scrittura, né dell’impegno, ma del prezzo pagato: “Chi mi vuole bene ha pagato più di me. Io almeno ho potuto reagire, costruire qualcosa. Ma loro hanno solo perso”.
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Dietro le parole di chi ha sfidato le mafie c’è oggi la fragilità di chi ha vissuto troppi anni sotto scorta, in un’esistenza che definisce senza esitazione “un ergastolo”. Non si può tornare indietro, non si può tornare normali. “Vorrei sparire, a volte”, confessa. E quel verbo – sparire – non è usato a caso. Non è l’assenza, è il dissolvimento, la cancellazione di sé. Ha pensato anche al suicidio, e non lo nasconde. Dice che l’alba è il momento più difficile, quello in cui le ombre sembrano più vere della luce. “Le crisi di panico arrivano senza preavviso. È come se il corpo si ribellasse a un destino non scelto”.
Scrivere per restare umano
Ma non c’è solo dolore. C’è anche una forma ostinata di salvezza: la scrittura. Scrivere è ciò che ancora tiene insieme i suoi pezzi, ciò che lo ancora alla realtà quando tutto sembra volerlo trascinare via. “Scrivere è l’unico modo per restare umano, per non cedere alla disumanizzazione dell’esilio interiore”. La pagina, dice, non lo giudica. Lo ascolta. Lo aspetta.
Roberto Saviano, oggi, non cerca comprensione. Non chiede indulgenza. Ma decide di raccontare la verità più scomoda: che la vita dell’eroe non è un premio, ma una condanna. Che combattere può lasciare cicatrici più profonde di quelle inflitte dal nemico. E che a volte il nemico più duro da affrontare è il senso di colpa.