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Applaudito dagli italiani, scartato dai partiti: il caso Draghi (chi lo teme oggi di più)

Pubblicato: 05/05/2025 11:58

Mario Draghi gode della fiducia del 48% degli italiani, è la seconda figura più apprezzata dopo il capo dello stato Sergio Mattarella e (udite udite) molto più della presidente del consiglio Giorgia Meloni. Ma non lo vuole nessuno. Non perché non sia capace, non perché manchi il consenso. Semplicemente: Draghi è troppo. Troppo competente, troppo indipendente, troppo serio per poter essere gestito (e ingabbiato) dai partiti.

Un “corpo estraneo” che fa paura. Nel nostro Paese sembra che per essere candidabile, sia necessario aver fatto almeno tre gaffe su TikTok, due cambi di casacca e una partecipazione da Bruno Vespa. Draghi, invece, ha “soltanto” salvato l’euro, fatto ripartire il piano di vaccinazione contro il Covid, tenuto a bada lo spread e in ultimo avviato le riforme del PNRR. Recentemente l’abbiamo visto salutare i parlamentari con una battuta molto british che ha destato parecchio scalpore, ma che la dice lunga su di lui e sullo stato in cui versa la nostra politica: «Vedo che guardate l’orologio». Classe oltremisura, troppo mestiere: non c’è posto.

Nel pezzo pubblicato qualche giorno fa da «L’Espresso», il paradosso è descritto bene: in un’Italia ostaggio di opposizioni scoordinate e populismi urlati, Mario Draghi resta lì, silenzioso e intatto. Un “convitato di pietra” che tutti sanno essere autorevole, ma che nessuno osa evocare. Eppure, secondo l’ultimo sondaggio di YouTrendper «Sky TG24», l’ex premier ha oggi un consenso che renderebbe felice qualsiasi leader politico. L’80% degli elettori del Pd ha dell’ex governatore della Banca di Italia un giudizio positivo. Eppure la segreteria dem si guarda bene dal nominarlo. Il motivo? Perché, nell’inerzia che impera nel campo progressista, Draghi non è utile. Non serve a tenere buoni i pentastellati. L’economista romano non strizza l’occhio ai like. Non si presta a selfie, dirette, hashtag. Non ha canali social, non ama i bagni di folla. 

In altre parole, Draghi non è fruibile: per questa ragione viene scartato come un’opzione troppo pericolosa. Il suo nome rischierebbe, infatti, di spostare davvero gli equilibri. La segretaria del Pd Elly Schlein, in particolare, sembra prigioniera di una strategia difensiva: mantenere l’alleanza col Movimento 5 Stelle whatever it takes. Anche a costo di tacere quando ci sarebbe da parlare. Dopo la rielezione di Donald Trump negli Usa, dopo l’ennesima virata sovranista in Europa, ci si sarebbe aspettati una controproposta netta. Invece niente, il nulla. L’occasione di incarnare una leadership adulta, capace di smarcarsi dall’eco populista di Giuseppe Conte, è sfumata. E il motivo è chiaro: la Schlein non vuole turbare nella maniera più assoluta l’intesa fragile con chi nel 2021 ha vissuto Draghi come un’umiliazione personale.

Lo possiamo scrivere, Conte non ha mai perdonato. Non il Presidente Mattarella, non i partiti che lo scaricarono, ma soprattutto lui: Mario Draghi, l’uomo che lo ha sostituito, che ha “rimesso a posto le cose” senza fare troppi complimenti. Per l’avvocato del popolo il solo nome è un trauma. E chi vuol far squadra con lui, sa di non dover mai tirare in ballo l’argomento. Un non-detto che paralizza il centrosinistra.

Nel frattempo, Draghi cosa fa? Beh, il solito. Parla poco, lavora molto, e viene invocato solo da chi è ai margini. L’unica proposta ufficiale su di lui è arrivata nei giorni scorsi da Italia Viva: inviarlo come negoziatore europeo sui dazi con gli Stati Uniti. Non una candidatura politica, ma una chiamata tecnica, da “riserva della Repubblica”. Eppure, nonostante il suo peso riconosciuto a Bruxelles e a Washington (secondo un sondaggio Polling Europe del 2024, Draghi è più autorevole persino di Ursula von der Leyen), in Italia continua ad essere ignorato. Ma attenzione: non è il silenzio di chi non lo stima, ma di chi lo teme.

Perché Draghi costringe alla qualità: spinge a pensare, scegliere, decidere. Induce ad abbandonare la comfort zone delle ambiguità. In un Paese dove il compromesso è diventato fine e non mezzo, l’ex numero uno della Bce è destabilizzante, scuotente. Una variabile che sfugge al controllo, lo dicevamo. Il risultato è un cortocircuito: un uomo che gode del massimo rispetto popolare, ma che viene tenuto fuori da ogni ipotesi politica reale. Non perché non sarebbe efficace, ma proprio perché lo sarebbe (troppo).

Insomma, Draghi continua a tenersi lontano dalla mischia, ben lontano dal chiassoso brusio dei partiti. Non per arroganza, spocchia, bensì per necessità: perché nessuno lo vuole tra i piedi, a meno che non serva spegnere un incendio. Lo si potrebbe definire l’estintore della Repubblica. Tirato fuori, solo quando le fiamme sono ormai fuori controllo. Se siete arrivati fin qui l’avrete capito, Mario Draghi non è incompatibile con la politica italiana, ma con la mediocrità di quest’ultima. E il problema, a ben vedere, non è lui. 

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